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Estate, tempo di letture (e riletture)

Estate, tempo di letture (e riletture)
Agosto 17
16:27 2016

Calmandosi le conferenze e rarefacendosi gli incontri di lavoro, insieme alle letture di dovere, ci scappa qualche ora (specie per gli insonni come me) per prendere in mano libri non commissionati da nessuno, così, per il gusto di imparare, per disintossicarsi dalle letture obbligate ed anche per ricollegare le idee, “rileggere” i passi sottolineati magari anni fa: il sapere esula dal tempo, ma non la nostra esistenza, per cui bisogna approfittare di ogni momento per conoscere i grandi che ci hanno lasciato patrimoni inestimabili. Fortunato chi li apprezza: con essi, vive tante vite, poiché ognuno ha l’età della propria cultura.

Ciò premesso, voglio dire di aver trascorso diversi giorni con inediti di ogni tipo, di cui uno bellissimo, che spero veda la luce presto (un romanzo storico nel senso reale del termine, in tempi in cui gli editori abusano della parola “romanzo” mettendola in copertina pure negli elenchi telefonici).

Poi, quasi contemporaneamente, in ore diverse della giornata, s’intende, ho esaminato Viaggio in America di Oriana Fallaci e L’Odore dell’India di Pier Paolo Pasolini. Non starò qui a fare il critico letterario, ma a prendere spunti per riflessioni e collegamenti.

Nel capitolo “Un marxista a New York”, Oriana descrive l’incontro con Pier Paolo, il quale era andato in America in occasione della proiezione di due suoi film. Credo fosse l’ottobre del 1966. Delle interessanti descrizioni del personaggio, voglio solo riportare quanto Pasolini disse alla Fallaci a proposito della letteratura americana: «Io sono un marxista indipendente, non ho mai chiesto l’iscrizione al partito, e dell’America sono innamorato fin da ragazzo. Perché, non lo so bene. La letteratura americana, tanto per fare un esempio, non mi è mai piaciuta. Non mi piace Hemingway, né Steinbeck, pochissimo Faulkner: da Melville salto ad Allen Ginsberg». Per quale motivo ho riportato questo passo? Perché una sera del 1963, a cena a casa mia dove abitavo ai “Sampàveli”, mostrando le mie perplessità giovanili sul valore di Hemingway e di Fitzgerald, il cui Grande Gatsby mi era sembrato una specie di Buongiorno tristezza della leggerissima Sagan, e siccome i miei amici, sotto l’effetto dell’immensa fama dei due autori, mi trattavano da incompetente; quando Pier Paolo in un colloquio mi dette ragione, toccai il cielo con un dito. Ma siccome non c’erano testimoni, non mi azzardai mai a suffragare le mie convinzioni “scandalose” con l’autorità di Pasolini. Ora che trovo la sua dichiarazione su un libro edito – l’articolo fu pubblicato vivente Pier Paolo – riprendo l’argomento, allegandovi anche il giudizio del celebre anglista Pasquale Maffeo, che dava ragione a entrambi.

Bene. Procedamus. Dell’ammiratissimo Primo Levi non avevo letto La tregua, sebbene avessi visto il film. Se pure non è all’altezza di Se questo è un uomo, è uno dei più bei testi a cui mi sono accostato in questo tempo di acqua calda letteraria. C’è poco da fare: i capolavori nascono sì dall’immaginazione, ma, spesso, se sono sorretti da esperienze vere vengono fuori meglio. Ve lo siete mai chiesto perché il Neorealismo cinematografico ha dato frutti altissimi, e perché dopo la guerra sono usciti tanti libri carichi di emozioni, drammi, vivi in qualche maniera grazie alla sofferenza passata realmente e non inventata? Poi, l’esangue crepuscolarismo di tanti autori che hanno giocato con le parole (Strutturalismo, varie Avanguardie etc.) non avendo nulla da tirar fuori dal cuore, e oggi il vuoto, dato dalla mancanza di dolore autentico, di sofferti pericoli in cui l’esistenza stava in bilico ogni momento e la tragedia umana si toccava con le proprie dita e si vedeva coi propri occhi e si sentiva dalle orecchie e dai pori!

E, tuttavia, leggendo Diario di un padre innamorato di Marco Onofrio (Città Nuova ed), ho dovuto considerare che se c’è l’ingegno (e il “cuore”), si può giungere a verità palpitanti pur senza l’ausilio maledetto della guerra, ausilio che io ho vissuto da bambino fino ai sei anni, e mi ha segnato dentro. D’altronde, Leopardi, per citarne uno, quale battaglia ha combattuto sul fronte? Quale amore ha provato? Eppure è al sommo del pensiero e della liricità mondiale. Ma se manca l’esperienza, ci deve essere il genio a supplirla, e il genio è raro: ecco tutto.

Me ne andavo in tali considerazioni, quando, scartabellando nella vastissima biblioteca di cui non tengo a mente che qualche testo letto e riletto, mi è capitato fra mano un volumetto di Paul De Musset, fratello del più celebre Alfred: Roma pittoresca (Guida editore), estratto da un ben più ampio viaggio nella nostra Penisola (che gli stranieri ammirano più di noi!). Una lettura a me cara, adoratore di Roma e Castelli Romani. Quella passione mi ha portato a rileggere Viaggio sulle rive dello Jonio di George Gissing e Tutto il miele è finito di Carlo Levi (la Sardegna arcaica descritta con gusto anche filologico).

Da qualche notte, nell’ampio terrazzo adorno di vasi e rampicanti, che annaffio e curo, ho ripreso a leggere Voltaire, precisamente il Vocabolario, ma anche pagine sparse, dalle quali mi preme riportare, a volo di rondine, questo pezzo dal Dizionario filosofico, nella parola Critica: «Le inimitabili tragedie di Racine sono state tutte criticate, e molto male; il fatto è che lo erano dai suoi rivali. Gli artisti sono i giudici competenti dell’arte, è vero, ma questi giudici competenti sono quasi tutti corrotti. Un ottimo critico sarebbe un artista che avesse molta scienza e molto gusto, senza pregiudizi e senza invidia. È difficile trovare».

Niente di nuovo sotto il sole. Ogni giorno assistiamo al trionfo dei ruffiani, degli arrampicatori senza scrupoli, e al fallimento dei migliori.

Ho spulciato altre cose, ma i libri sono come le vivande: o piacciono, e ti divori anche il piatto, o non piacciono e assaggi solo per buona educazione, lasciando il cibo nella scodella con una scusa o con l’altra. Ho aperto diversi tomi, ma non hanno avuto la capacità di catturarmi: e questo già svaluta l’opera se ti costringe a una fatica di lettura insopportabile. A me è capitato anche con i romanzoni (che romanzi non sono) di Umberto Eco (tranne Il nome della rosa, un unicum straordinario). Ho fatto pure il voto a qualche santo per arrivare fino in fondo, ma il sonno – dico il sonno, amici miei, tanto avaro con me – giungeva repentino e pesante oltre la ventesima pagina. E anche qui, tornando al libro della Fallaci, nel capitolo su Pasolini, lo scomodo personaggio dice: «Gli italiani sono sempre padroni del sapere, anche quando sono ignoranti. Non c’è mai un attimo di timidezza, negli italiani, verso il sapere. Un tipo come Umberto Eco, ad esempio, conosce tutto lo scibile e te lo vomita in faccia con l’aria più indifferente: è come se tu ascoltassi un robot…». Infatti, i suoi stessi amatori (di Eco) ammettono sottovoce che i suoi romanzi (cosiddetti) non sono le sue cose migliori. Quando sembra allontanarsi dall’erudizione (sempre raffinatissima, intelligente al punto di lievitare in cultura – tranne che nei libri di narrativa, dove si sente la fatica del “raccontare” –, la ripropone sotto mentite spoglie. Io sono un lettore attento delle sue opere, e a fine primavera ho gustato, sempre di Umberto Eco, La memoria vegetale, e altri scritti di bibliofilia (ediz. Rovello, Milano, 2007), appassionante cifrario di notizie e di pensieri che a un topo di biblioteca come il sottoscritto non sfugge facilmente. Ma l’intelligenza dei suoi saggi ed articoli gli danno il posto che merita.

Il mio elenco ragionato di letture finisce qui, perché in parte le ore sono state occupate da “riletture”, specie delle poesie di Vincenzo Cardarelli, di James Joyce e di Wallace Stevens (Mattino domenicale), nonché di Dante sul cui Paradiso sto conducendo una sinossi critica a conclusione della Commedia. Ma voglio annunciare ai pazienti lettori che presto aprirò la rubrica “Riletture”, iniziando con Sant’Agostino di Giovanni Papini, che ho finito di “studiare” con piacere e passione proprio in questi giorni: il grande e dimenticato Giovanni Papini!

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