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Erano come i raggi di luna, di Mario Miller

Erano come i raggi di luna, di Mario Miller
Agosto 12
16:43 2015

56-copertina-libro-millerNon è semplice fare un’esegesi al libro di “sensazioni e pensieri” di Mario Miller, perché il critico non si può basare su una trama e sui personaggi. Dico questo per avallare un mio pensiero, scaturito a fine lettura: ci troviamo di fronte a una sorta di poemetto lirico vergato in prosa, sebbene ci siano dei lacerti in versi (“Olio”, bellissima, e “Decadentismo cosmico”), per cui si è costretti a carpire dai passi che si rincorrono sotto la spinta emotiva alcune righe che assurgono a saggezza di proverbio, e interi capitoli che posseggono il battito di una sorta di visionarietà, direi oltre il fattore onirico

(“Guardando il mio lago splendente come l’oro di un’eterna alba, desiderai fortemente questo luogo e si materializzò. Era il tempo lontano in cui gli uomini iniziavano a combattere sotto l’effige di Dio (…) Chissà se gli uomini troveranno mai pace dal loro stesso tormento…!“). A codificare, a suggellare il volo immaginativo dei “passi” ci sono, a conclusione, alcuni “raggi”, elencati coi numeri ordinali: essi stigmatizzano un pensiero complesso in poche parole (“Fare tutto in funzione di quel giorno, ma fare in modo che non arrivi mai. Giungere quasi a sfiorarlo, ma non toccarlo mai. È il segreto per non farlo mai concludere…“: questo è un esempio eloquente della tessitura d’un lavoro non incasellabile dentro alcun genere letterario, e per ciò più nuovo e originale, ma è pure la cifra che l’autore ci offre per decodificare le sineciosi – più che ossimori – di cui è costellata la sua pagina). Voglio far intendere al lettore che la vita è contraddittoria, talvolta assurda, paradossale, per cui ciò che si nega si può affermare (si legga “Dialogo fra un Angelo e un Diavolo”, tessuto su un dialogo che tanto fa ricordare l’espressione di Schopenhauer sulle “ragioni” che un Goethe e uno Shakespeare danno a Satana stesso, mentre un autore mediocre prende per mano i suoi personaggi dicendo a priori chi è il buono e chi il cattivo). Miller ha le idee chiare (si confronti, al proposito, “Sotto l’albero del bene e del male”: “Occhi chiusi per non vedere l’orribile declino di questo mondo malsano e spregevole. Fantasma immondo che vomita fumo su se stesso, ridendo e gioendo della sua rovina e disgrazia (…) L’albero di sublime coerenza del bene e del male, che mai ha giudicato, ma solo donato i suoi frutti, avrà l’infinita pazienza di vegliare su di me“). Così si arriva a un punto dolente: all’ambigua sapienza del “maestro supremo”, in cui si legge: “papaveri fate sbocciare ed oppio fate sgorgare“, onde l’oblio, perché di esso ci sarà bisogno anche dopo l’Apocalisse. Ma pure la nostalgia, da spegnere con l’ebbrezza (“Tristi e colmi di rimpianti ci avviamo verso la fine quando basterebbe un bicchiere di vino per tornare all’inizio“), si legge nel XXVIII raggio, che mi rimanda a un detto di Samuel Johnson, il Doctor legum che scoprì l’immensità di Shakespeare: “Non appena varco la soglia di una taverna, dimentico le preoccupazioni e mi libero delle premure (…) L’uomo non è ancora riuscito a inventarsi qualcosa che produca tanta felicità quanta ne producono una buona taverna o un’osteria“). Però, qui mi nasce un dubbio: Miller è più vicino al senso di Johnson, o all’oppio di Leopardi, o al vino di Orazio? Ci sono tre filosofie differenti dietro tale dolce “narcotico”. Io personalmente sono portato a credere che l’autore di questo itinerarium mentis et cordis in vitam ed in somnium abbia la speranza e la disperazione della conoscenza: “Decisi di rimanere… a vagare senza mèta oltre ciò che si può sognare, perché è meglio vivere nella notte con chi ti ha dato la luce, che vivere nel giorno con coloro che non ti hanno dato altro che buio“. E qui si conclude – almeno secondo le mie impressioni – l’emistichio del libro: “Quando il primo raggio di sole attraversò l’alba, il giardino del nulla aprì i suoi cancelli. L’altrove è dove si crede si celi la verità“.
L’altra parte del testo sale i “ronchioni” della “possibilità”, perché tutto è in fieri (“Il mondo è estremo, quindi io sono estremo. Conscio di ciò, posso finalmente muovermi liberamente per questo mondo“). Ma la pagina intitolata “L’altrove” è speculare a tutta la lettura: ad essa si arriva e da essa si riparte per un percorso a ritroso, illuminante (un percorso a ostacoli, anche vertiginoso se vogliamo, e forse visionario di una visionarietà che ha l’atmosfera di un profetismo laico). E poi c’è un addio, una morte “del percorso vitale”, ove, nel silenzio di se stesso, si ritrova se stessi. Fino a una paventata e cercata resurrezione.
A mio parere, (ma ciò è detto solo come orientamento generale che non presenta conseguenze di dipendenza alcuna), sono probabili gli influssi baudelairiani, le letture dei mistici orientali, forse di LaoTseu, di Nietzsche, con echi di Campana, Wilde e Poe, ma rinnovati da un’immaginazione fervida e lirica, a cui aderisco per incanto della forza espressiva di questo autore che, credo, sia tra l’altro giovane, un giovane maturo, oltre che di belle speranze.

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