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Elogio di un combattente

Elogio di un combattente
Luglio 28
17:33 2014

Ho conosciuto Guido nell’autunno 1995, nel suo ufficio in penombra di vicolo Moscatelli. La tragedia di sua figlia si era già consumata. Le pareti povere di quell’ex-atelier di maniscalco erano adornate, soprattutto, dalle foto di quel suo amore/dolore. Ebbe i modi sospettosi ma bonari del maestro artigiano che prende in bottega l’apprendista. Così gli avevano insegnato, a lui figlio primogenito di un artista e modello di papà Benedetto per alcune sue opere: una fra tutte, il fanciullo accanto al gigantesco s. Girolamo Emiliani che, sulla terrazza della canonica della chiesa di S. Martino, indicava il Paradiso. Mi raccontò dei periodi di magra, durante la Ricostruzione, quando suo padre era costretto a chiedere a “Ciarlitto ‘o scarparo” di portare pazienza, per i pagamenti delle calzature dei suoi figli.
Portava sempre nel cuore una foto della Velletri-che-fu: quella del distrutto palazzo tardo-barocco Gregna-De Bonis, che stava di fronte alla facciata della chiesa di S. Martino e il cui portale in peperino, secondo la tradizione, proveniva dal castello del Maschio di Lariano. In quel palazzo Guido era nato e vissuto, prima che fosse danneggiato dai bombardamenti alleati del 22 febbraio 1944 e poi demolito. In quel tugurio di vicolo Moscatelli, su un bancone adattato a scrivania, aveva sempre davanti agli occhi le foto dei suoi genitori. Ed era affezionato a quella insieme agli altri membri del settimanale La Torre (lui, Leotta, Rosatelli, Carbonelli, don De Mei) scattata nei pressi di Porta Napoletana.

Dalla termoidraulica al giornalismo
Lui, proveniente dall’artigianato, in età matura si era faticosamente ma caparbiamente guadagnato un posto al sole nel panorama giornalistico locale. E andava giustamente fiero di quella passione/sogno nel cassetto per la quale aveva sacrificato gran parte della sua vita professionale e privata. Era operativo giorno e notte, pronto a immortalare e documentare eventi tragici e solenni, esclusive e chicche. Ricordo come fosse ieri la mattina che andammo a Roma, insieme a Tommaso Leotta, alla conferenza stampa per l’avvenuto rinvenimento della “Croce Veliterna”. Mi confidò che la macchinetta fotografica «sembrava essere impazzita» nelle sue mani, tanta era la gioia per quell’evento.
Di pugnalate alle spalle ne ha ricevute tante. Non saprei tenerne il conto. Da tutti i tipi di “amici” e da tutti i tipi di portaborse, galoppini, potenti e impotenti; forse perché chi, come Guido per decenni, gestisce la cronaca è un filtro che deve sciropparsi le acque pulite e le acque sporche della società. E poi, in un villaggio post-medievale come il nostro in cui vige tuttora la massima “Ce li hai, i soldi? No? E allora non capisci niente!”, uno come Guido, che ha avuto l’ardire di passare dalla termoidraulica al giornalismo, era scomodo, a tratti imbarazzante. Da ridicolizzare, insomma.
Guido non ha mai gettato la spugna. Anzi, non l’ha mai usata neanche per inumidirsi le labbra negli ultimi istanti di vita terrena. Al massimo, l’avrà usata qualche volta per rinfrescarsi i piedi durante le lunghe ore che è stato inchiodato al letto dalla malattia. Al suo blog, con la mente sempre in movimento, ha sicuramente pensato di tornare fino all’ultimo, combattente com’era. Poteva essere simpatico o antipatico, ma sulla sua onestà intellettuale (e prima ancora, integrità morale) lancio la sfida a chiunque voglia eccepire o dissentire. A ciascuno il suo, ha scritto Sciascia. A Guido Di Vito vada tutta la riconoscenza di una comunità con una lunga tradizione storica che lui ha tanto amato e, soprattutto, cercato con tutte le sue forze di svegliare dal torpore e rendere vigile contro le tentazioni e gli squallori del potere. La sua lezione è stata una continua scarica di adrenalina, in un mondo che tende sempre più a una circolazione sanguigna al bromuro.

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