E tu raccoglievi sassi
C’incontrammo per la prima volta a settembre, quando le foglie dei platani iniziavano a cambiare colore prima di cadere.
Io avevo undici anni, i capelli lunghi e i denti a seghetta, una cartella nuova di cuoio e le scarpe troppo grandi per i miei piedi.
Tu avevi dodici anni, il ciuffo dei capelli neri che ti ricadeva sugli occhi neri, un elastico per i libri e una bicicletta da uomo. Entrammo insieme nel portone della nostra scuola e fu come infilarsi in un tunnel senza uscita.
Nemmeno una parola tra noi, nemmeno un cenno. Solo sguardi circospetti, e tu che mi stavi alle spalle, con le mani nascoste sotto il banco, nell’aula con i soffitti altissimi e i finestroni che la inondavano di luce, mi bucavi la nuca col tuo sguardo bruciante, che si scioglieva d’un tratto in un battito di ciglia.
Era un sentimento tenero e dolce come un cucciolo, ma tu ne avesti paura e lo rinchiudesti in una tana segreta.
Io non vedevo più girare intorno a me quello sguardo umido e invaghito e spaventato, e le tue mani le tenevi allo scoperto, strette sul banco, mentre fissavi il muro che non si sbriciolava sotto la pressione della tua violenza, come avresti voluto.
Uscivamo insieme dal portone della scuola e ci perdevamo nei vicoli intorno alla piazza del mercato, per ritrovarci come per caso faccia a faccia e fingere di non conoscerci.
Io volevo solo che tu allungassi le braccia verso di me, come si fa per accarezzare un frutto acerbo su un ramo.
Ma tu mi voltasti le spalle per cercare sassi che non ti chiedono l’anima perché non hanno un’anima. Così credevi.
E ti chiudesti a tutti i sensi.
Allora cominciai a ridere di te. Il riso mi usciva festoso riportandoti a quella primavera senza fioritura, che era il tuo rimorso. Il riso mi usciva lugubre come un rintocco di campane e ti rimbombava nella testa rendendoti sordo.
E tu raccoglievi sassi.
E io mi preparavo al giorno che mi avresti lapidata.
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