È disponibile l’ultimo libro di Armando Guidoni: “Verso il cambiamento”
Quando il papa Benedetto XVI invitò l’umanità a concedersi qualche attimo di tregua per dedicare il tempo alla meditazione, il giorno successivo molti organi di stampa, a titoli cubitali, titolarono in prima pagina: «E che fine fa il PIL?» Forse è il caso di riprendere la frase comica di Peppino De Filippo, nel film con Totò: «Ho detto tutto». Infatti, quei commenti compatti contro una saggezza cristiana, “dicono tutto”. Pure un mangiapreti avrebbe dovuto ricordarsi che Gesù apostrofò così in casa delle sorelle di Lazzaro: «Marta Marta, tu ti affanni e ti affatichi per molte cose, ma una sola è necessaria».
A ribadire la verità millenaria, che pochi hanno seguito, è ora un pensatore coraggioso e limpido, un animo di poeta e uno scienziato: Armando Guidoni. In fondo, in sintesi, il suo libro – che non ti lascia più fino alla fine – vuol significare questo. E lo fa con un volo veloce nei tempi, iniziando dalla notte dell’umanità e planando in rallentamento – per distinguere meglio – sul travagliato Novecento, secolo che suscita orrore, disgusto e rabbia se visto “sub specie aeternitatis”.
Spieghiamoci subito: Guidoni non è un pessimista tout court, bensì un realista per cui vale il detto gramsciano del «pessimismo della ragione e l’ottimismo della volontà». Infatti, per anticipare le cose, bisognerà soffermarsi – dopo le pagine di denuncia – sulle anafore martellanti che fanno suonare la speranza: «È necessario», scritto in grassetto ai presenti e a futura memoria. Ché, per stare con quel gigante di sant’Agostino, «La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Il primo, di fronte a come vanno le cose, il secondo per cambiarle».
Ecco: il presente saggio, scritto con la scorrevolezza di un bel romanzo – anche se drammatico e dalle tinte infuocate – ha un procedimento tomistico, che Dante sintetizza così: «mostrando e rimostrando» (vale a dire: «confutando e poi affermando con dimostrazione inequivocabile la verità»). Di fatti, l’orrore della Storia (che nel Novecento molti di noi hanno vissuto sotto i bombardamenti, le dittature demoniache, i genocidi di cui l’homo sapiens deve portare vergogna eterna) è descritto nel testo, ma non solo in senso politico e sociale, bensì nella critica alla disfatta del Neoliberismo e dell’egoismo collettivo che annulla la generosità individuale (dove sono le dimostrazioni, ancorché parziali, della messa in pratica, in opera, degli statuti sui diritti dell’uomo, anzi dell’umanità, sanciti secoli addietro, spiegati filosoficamente dall’Illuminismo e dalle persone “illuminate” e quivi riportati con dovizia di particolari? Shakespeare direbbe: «Il resto è silenzio», o violenza, o scempio).
Nel presente libro – attenzione! – sono indicati anche i rimedi. I saggi nostri progenitori Latini dicevano «Necesse est». È che il mondo gira a velocità crescente come un gatto che si morde la coda fino a stramazzare al suolo privo di sensi. È una corsa al massacro. Guadagnare di più per consumare di più, in un vortice da mulinello che inghiotte il natante. Ci siamo inventati – e su questo si basa la logica stolta specie dell’Occidente, ma tutto il mondo ormai è Occidente – necessità non necessarie. Abbiamo scassinato la Terra. Gli antichi ladri di tombe egizie, rubavano quel tanto necessario alla sopravvivenza, lasciando ai discendenti la possibilità di altri moderati furti. Noi abbiamo mangiato anche le piramidi. E la vendetta del pianeta azzurro, del miracolo celeste a cui tutti apparteniamo, si sta realizzando con progressione geometrica.
La società capitalista ha imposto mete illusorie all’uomo; il consumismo lo ha irregimentato su un’autostrada sulla quale non può né fermarsi né dalla quale, tanto meno, tornare indietro. Ma un invisibile virus, contro cui manco la mirabile invenzione umana della bomba atomica può nulla, ferma la corsa forsennata per un ripensamento obbligato, dimostrando alla nostra superbia di “padroni del Creato” che non siamo nulla: siamo bolle di sapone che riflettono in volo il sole, ma un soffio di vento le fa scoppiare e di esse non resta niente.
Il fondamentalismo di mercato opera con gli stessi strumenti (occulti) del genocidio. La comunità desiderata è agli antipodi della comunità vissuta. Fa male constatarlo, ma siamo al capezzale di un moribondo e non ci rendiamo conto neppure assistendo ai rantoli estremi.
Nei vari eserghi a inizio dei brevi capitoli, si legge un pensiero del saggio imperatore Marc’Aurelio: «Ciò che non è utile allo sciame non è utile nemmeno all’ape». Ora – e mi permetterà questa digressione l’Autore – mi viene in mente un racconto cinese sul quale ho riflettuto spesso e che calza in pieno con il concetto aureliano.
Un’anima deve andare in paradiso, ma necessariamente passa prima per l’inferno e vede le pene: al centro di un ampio salone c’è un tavolo imbandito di tutte le cornucopie della natura, ma siccome i dannati siedono a una certa distanza dalla mensa, debbono avere delle prolunghe legate al braccio, vale a dire un lungo cucchiaio di legno che permetta di attingere le squisitezze del cucinato. Però, quando cercano di portarsi alla bocca il cibo, si accorgono con disperazione che la prolunga artificiale va oltre e così rimangono a digiuno. Visto tale castigo, ormai l’anima va in paradiso, ma si accorge che pure lì le cose stanno nella stessa maniera, però tutti sorridono sazi e soddisfatti perché ognuno usa la protesi per imboccare il vicino e questi fa altrettanto con lui, in una vicendevole coralità. Ecco una splendida metafora della «generosità individuale e collettiva», per riprendere il discorso di Guidoni. E qui s’appunta (per dirla con Dante) ogni questione generale: la crisi sanitaria globale, la miopia del consumismo, l’indifferenza verso il «lamento della Terra» che tutti ascoltiamo come se appartenesse a un altro pianeta, e non muoviamo paglia sia individualmente sia a livello globale (i vari vertici internazionali sono solo chiacchiere, i quali rimandano al 2050 – quando sarà troppo tardi – una percentuale minima di rimedio) per fare attenzione a questo lamento di agonia che ci avverte giorno e notte, coi ghiacciai squagliati, il clima impazzito, le tempeste e gli incendi (e ora con la pandemia…) che siamo sull’orlo di un precipizio senza fondo.
Martin Luther King dice: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi ma del silenzio degli onesti». È un’omertà che si ritorce contro tutti, nessuno escluso. Si parla – “tanto per dire qualcosa” – delle estinzioni di tante specie viventi ogni anno, come se non appartenessero a noi ma a individui alieni abitanti su pianeti lontani. Il nostro male – che è la nostra condanna – è di crederci eterni, onnipotenti, padroni del Creato, e non consideriamo – per citare Francesco Bacone vissuto quattro secoli fa – che «la Natura si domina ubbidendole». L’avidità ci spinge a depredare ovunque e qualsiasi cosa. Poi le risorse finiscono in mano di pochi. È la storia immutabile degli schiavi anonimi che hanno costruito le piramidi, le quali portano il nome dei faraoni; è il ripetersi della gloria dei generali e dell’oblio di milioni di esseri morti per far grande un duce, un timoniere, un caudillo, un führer… (tanto per restare al Novecento, sebbene nessun secolo, nella travagliata vicenda umana, sia esente da orribili barbarie dell’uomo contro l’uomo).
Guidoni parla. È un testimone della nostra forsennata epoca, testimone nel significato etimologico del termine: colui che vede e agisce.
Quando mi chiedono quale uomo ammiri di più nella trista vicenda umana, rispondo che mi inchino davanti a due: Cristo e Francesco d’Assisi. Parlo della povertà feconda. Però mi viene in mente anche il mitico Diogene, botticolo, il quale, trovandosi davanti al padrone del mondo (Alessandro Magno) e sentendosi chiedere di cosa avesse bisogno, rispose: «Che tu ti tolga, ché mi pari il sole». In un mondo di perversi leccapiedi e servi dei potenti nemici dell’umanità e della vita in sé, il Cinico sale alle altezze – in modo suo particolare – di chi ho nominato, o vi si appropinqua. Un giorno, vedendo un bambino bere dal cavo delle sue mani, Diogene capì che era inutile anche la ciotola e la buttò via. Ecco che Guidoni, dopo aver criticato il nuovo virus (simile a quello della famiglia che ci sta uccidendo), che è il “capitalismo globale”, scrive – e con tale altissima sentenza concludo per lasciare molte sorprese ai lettori – «in questo attimo della storia, affinché le cose tornino a funzionare, è necessario rischiare di perdere tutto».
Di una simile “testimonianza” si aveva bisogno. Oggi, tempo di scritture inutili, consolatorie, disimpegnate, un ritorno alla didattica, al grido di sdegno, al dettato scomodo, è necessario. È un dovere. E bisogna fare il nostro dovere a qualunque costo!
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