E dirti ancora, di Maria Lanciotti
Una strada da percorrere, l’esistenza. Charlie Chaplin e la sua amata in cammino, verso una meta apparentemente irraggiungibile, aprono le danze in copertina. Un bianco e nero nitido, che sa di atemporalità e di assoluto, ben si addice alle composizioni poetiche di questa nuova raccolta di Maria Lanciotti, E dirti ancora, Ibiskos Editrice Risolo 2012, nella quale la loquacità si cristallizza in poesie che consistono talvolta in poco più che un respiro.
Radici cubiche di discorsi troppo espliciti ed esplicativi (e quindi banali e ridondanti), cristallizzate in una serie di storie brevissime sotto forma di versi che si alternano a fraseggi ungarettiani di senso appena compiuto: spetta al lettore inalare il messaggio dell’haiku e dilatarlo all’interno della sua sensibilità, innescando la scintilla dell’ispirazione nella sua santabarbara di esperienze, ricordi, sogni. Questa raccolta della Lanciotti è tripartita: Quinta stagione, Flash, Al tempo ti rubo. Ciascuna sezione prende il nome dalla poesia più significativa. La prima è un inno agli affanni atavici e ai piaceri fuggevoli dell’esistenza, che non s’affida con leggerezza a una proposta evasiva ma che fornisce una soluzione inattesa, meritato/sudato premio di quattro stagioni vissute in modo irrisolto: una ‘quinta stagione’ della propria vita (“impensata/ (dolcissima)/ chevivo/ come roccia infissa/ nella roccia/ e braccia d’acque/ carezzevoli e mortali“). La sezione ‘Flash’ è una galleria essenziale d’istantanee fornite da incontri casuali in luoghi di passaggio come stazioni ferroviarie, dove “Ti siedi e vedi passare/ il mondo.// Ti alzi e segui la scia/ delle formiche“.
Nel pullulare di viaggiatori che è il mondo, sono sufficienti dei flash a innescare il meccanismo compositivo: un cieco guidato dalla donna che lo ama e che s’illumina di gioia; un fisarmonicista di strada sorpreso dalla pioggia; la madre che esce dal supermercato coi figli attaccati alle gonne che fingono di piangere; una ladra di cosmetici; un figlio dimenticato in auto in estate che muore tra lamiere infuocate; un sudanese che odora di acqua stagnante, foresta bruciata e belva affamata… è un vasto affresco dell’umanità sofferente ma bramosa di riscatto. Infine, Maria Lanciotti parla in prima persona, rubando al tempo “che su di noi ricama sentieri” e sbirciando dalla porta accostata il suo ragazzo “con gli occhi di velluto/ e i capelli di seta nera“. ‘
Al tempo ti rubo’ è una lista di ventidue comandamenti – uno per ciascuna delle altrettante poesie – per l’affrancamento affettivo della poetessa, ma anche una via di scampo – suggerita al lettore – dall’aridità sentimentale della vita quotidiana. Ma è soprattutto un grido di liberazione, di avvenuto riscatto dalle spire dell’incomunicabilità: “Grazie per i tuoi silenzi/ che mi hanno costretto a parlare“.
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