È arrivato… Zampanò!
Non quello lunare e strampalato prodotto dalla sensibilità surreale di certo Fellini, e magistralmente incarnato da Anthony Quinn, bensì uno Zampanò carnale e sanguigno come il vino che generosamente beve, terragno come la provincia italiana di tanti anni fa, di un’Italia ancora contadina e semplice, cui bastava la voce roboante e lo spettacolo rozzo di un artista di strada per regalare un attimo di meraviglia. Uno Zampanò cui dà corpo e voce Massimo Venturiello, affiancato da Tosca nel ruolo di Gelsomina, nella riedizione teatrale de La strada felliniana, su sceneggiatura di Zapponi e Pinelli (recentemente scomparso, e a cui gli attori hanno tributato in occasione della prima un commosso omaggio), in scena al Valle di Roma.
Rivisitazione in chiave di musical, sostenuta da buone voci, ben amalgamate e valorizzate dalla regia dello stesso Venturiello, su un tracciato musicale, peraltro piuttosto esile, di Germano Mazzocchetti (che per fortuna non protrae poi gli echi da Dreigroschenoper dell’esordio). Scarna la vicenda. Sullo sfondo di un paese provato dalla miseria e dalla fame, dove i sentimenti devono piegarsi alla necessità, la madre convince la figlia Gelsomina a seguire Zampanò (cui ha già venduto la prima, Rosa, la figlia bella, poi morta), in cambio di una somma di denaro che le servirà a sfamare il resto della famiglia. Recalcitrante e impaurita, Gelsomina si avvia a seguire il suo destino, ad imparare a ‘fare l’artista’, a fare cioè da spalla all’uomo, che percorre il paese con il suo carro, esibendosi davanti al pubblico occasionale col suo pezzo forte, spezzare una catena strettamente legata al torace. Tra umiliazioni e percosse, Gelsomina affronta il suo percorso di formazione, divisa tra la nostalgia della casa lasciata, con i fratelli e la vacca, e la strana seduzione che il suo ‘padrone’ esercita su di lei, nel silenzio, in un rapporto che non trova definizione neppure verbale, nel quale non è moglie né amante dell’uomo cui si accompagna, ma quasi un oggetto nella scarna costellazione di ‘strumenti’ tra i quali si muove la vita di Zampanò: la strada, il carro, le catene, la bottiglia. Giorno dopo giorno, anno dopo anno. Finché i due si imbattono in un circo, che vorrebbe scritturare l’uomo, e Gelsomina trova nel ‘Matto’, il funambolo della compagnia, chi le dà la voce che non ha, chi traduce in parole per lei dubbi e sentimenti. E’ così che la donna capisce che Zampanò è il suo unico ubi consistam, chi dà senso e ragione al suo vivere. Ma ormai i tempi sono maturi per la catastrofe. Proprio dal Matto, equilibrista sempre tra la vita e la morte, verrà la risoluzione del dramma. Con le sue continue provocazioni a Zampanò, innesca con quello una sfida mortale, dalla quale uscirà perdente. E Zampanò in fuga abbandonerà cinicamente Gelsomina, divenuta solo ormai pericoloso testimone; per apprendere dopo molti anni, lui stesso al termine della vita, della fine di lei. Si consuma così, nel non detto, la parabola esistenziale dei due, di cui ‘la strada’ è appunto metafora. Sullo sfondo della scenografia essenziale di Alessandro Chiti, di una strada costituita da un binario in salita, a cui sta aggrappato il carro lacero di Zampanò: dall’iniziale realtà contadina, solo allusa, in cui l’uomo è ancora in qualche modo protagonista, alla sua condizione di emarginato nell’ultima scena, dove l’edificio in costruzione alle sue spalle rimanda a nuovi scenari di periferie urbane, dove il dilagare vorace delle speculazioni edilizie sta cancellando l’illusione e il sogno. Malinconica, nel foyer del teatro, una mostra dedicata a Fellini ripropone, insieme ai numerosi ciak della sua corposa filmografia, scritti e disegni, foto e oggetti di scena, fino alla Lettera 35 del grande regista.
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