Doxa ed Epistéme
Ha scritto Marcel Proust, ne Il tempo ritrovato: «Ogni lettore, quando legge, legge se stesso. L’opera dello scrittore è soltanto una specie di strumento ottico che egli offre al lettore per permettergli di discernere quello che, senza libro, non avrebbe forse visto in se stesso.» Un pensiero, questo, che Davide Rondoni ribadisce ne Il fuoco della poesia: «Quando si ascolta una poesia di Leopardi o di un vero poeta, non ci si commuove per la vita di lui, ma per la propria.» Quello che ci interessa realmente, attraverso la lettura, è di capire chi siamo noi. L’opera pertanto, se genuinamente creativa, non stabilisce una relazione del fruitore con l’autore, ma del fruitore con se stesso.
E in fondo ciò riguarda lo stesso autore, come primo fruitore di quello che lui stesso scrive. Non dice nulla – l’opera – della biografia, della personalità esteriore di colui che la scrive (né di colui che la legge), bensì dell’uomo che, nell’interiorità profonda, è ciascuno di noi. Tanto più si può capire un autore, quanto più quell’autore si eclissa dietro ciò che scrive (o dipinge), lasciando che l’opera faccia da specchio per il fruitore, specchio dove costui possa vedere riflesso qualche segreto e ignoto aspetto di sé. Paradossalmente ciò impone allo stesso autore di scrivere (o dipingere, scolpire, eccetera) solo per se stesso, per la propria festa spirituale. L’arte non parla infatti a tutti, ma al cuore di ognuno, a partire da quell’ognuno che in primis l’autore stesso è. Sta qui l’universalità dell’arte e della poesia, la sua capacità di superare il particolarismo, l’intimismo, eccetera. Non è sufficiente sostituire l’Io con il Noi per ottenere un livello più universale della scrittura. Il Noi non offre alcuna garanzia di universalità, visto che è pur sempre una delimitazione soggettiva. Universalità non è sinonimo di totalità. La Divina Commedia non è universale perché ottiene il consenso di tutti, o di molti, come in un’elezione politica, ma perché riesce a toccare le corde più intime del singolo, nella sua interiorità. La comunicazione poetica pretende questa comunione profonda, e ciò non può avvenire ai livelli superficiali dell’Io o del Noi, dove il soggettivismo la fa sempre e comunque da padrone. È necessario che l’ego ponga fra parentesi se stesso per fare spazio all’alter ego (anticamente la Musa), immerso nel flusso misterioso dell’Essere e della vita. Occorre, in altri termini, che l’Io riesca a trascendersi, facendo spazio al Sé, all’essenza universale che dimora dentro di sé. È questa la modalità della comunicazione artistica, dove il primo anello della catena relazionale è costituito dalla comunione dell’autore con se stesso. Se si salta questo anello, va in pezzi l’intera catena, in quanto la comunicazione diviene inautentica. E se ciò può essere accettabile nell’eloquio convenzionale, non può assolutamente esserlo nel linguaggio creativo, dove ad esporsi sono le regioni più profonde del nostro essere, che impegnano la nostra autenticità, la nostra universalità, la nostra verità. Ciò capovolge l’antico pregiudizio greco, di cui è permeato l’intero tessuto della nostra civiltà, secondo cui la poìesis, il mythos, sarebbe il campo per eccellenza del soggettivismo umano, mentre l’epistéme, la verità, si manifesterebbe nel logos, peraltro confuso con l’intelletto razionale. Il mio punto di vista si trova agli antipodi di questo assioma, le cui formule non credo fossero nelle corde del substrato più arcaico della grecità, che fu profondamente misterico prima dell’insorgere del pensiero metafisico. Io ritengo che le cose si diano così come sono al nostro intelletto, senza manipolazione alcuna, soltanto nell’attività mitopoietica, ovvero nel mito allo stato sorgivo (ovviamente non parliamo di mitologia, dove il mito si presenta decaduto a favola ripetitiva). Ha scritto Umberto Galimberti ne Le origini della filosofia greca, primo capitolo della Storia del pensiero occidentale diretta da Emanuele Severino (Armando Curcio Editore): «Nel raccoglimento del logos, l’uomo, con la sua parola, dice come le cose nella loro esposizione si danno. Mentre nel mito le cose sono usate per dire il vissuto dell’uomo, nel logos sono lasciate essere così come sono, senza alcuna manipolazione (poiéin). La parola poiéin in greco significa “produrre”. Da poiéin deriva la parola poìesis da cui la nostra poesia. La poesia, di cui si alimenta il mito, è una produzione di significati che non lascia parlare le cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo. Questa imposizione non è l’imporsi delle cose, ma ciò che l’uomo impone alle cose, in altri termini è la violenza poetica sul contenuto quale si dà. La filosofia rappresenta il tentativo riuscito di liberarsi da questa imposizione… La parola greca che nomina l’imporsi di ciò che ha la forza di farlo senza ricorrere alla manipolazione poetica è epistéme.» Non mi trovo d’accordo con questa impostazione di pensiero. Quando Eraclito nomina la maestà del logos, contrapponendolo al favolismo della mitologia, in realtà non fa che esaltare la potenza della mitopoiesi, che allo stato sorgivo non manipola un bel nulla, in quanto è totalmente nelle mani del logos, quando questi si affaccia negli orizzonti dell’intelletto umano. Sta qui l’ispirazione delle cosiddette Muse, qui il carattere universale della poesia (e dunque epistemico, se epistéme significa “ciò che sta sopra”). La ragione dell’uomo è sempre schematica, pretestuosa, partigiana. Essa tende a distinguere, a dividere, a separare, per cui resta costituzionalmente impermeabile all’universalità. Nel particolarismo sta la sua più vera natura. Essa è sempre e comunque doxa (opinione), e vano risulta qualsiasi tentativo di trasformarla in epistéme. È giunta l’ora di dire che non c’è nulla di universale nella ragione umana, per sua natura settaria, mentre l’universalità prende corpo esclusivamente nella mitopoiesi, nel mythos, ossia, non ancora decaduto a mitologia. Ciò che è costruito, prodotto, manipolato dall’uomo è frutto del suo intelletto razionale, non certo frutto di quella verginità dell’intelletto, aperto verso il logos, che è invece tipica della mitopoiesi creativa. È certamente vero che la poìesis (da poièin, fare) impegna la sfera dell’agire umano, ma occorre distinguere il fare dallo strafare: l’azione secondo natura (cosmocentrica), dall’azione (antropocentrica) dettata dall’intelletto razionale. L’uomo diviene creativo nel momento in cui pone le mani in pasta nei processi creativi del creato. È quello il momento in cui si lascia veramente ispirare dal logos, che è intelligenza pura, aschematica, fuori dai pregiudizi e dalle gabbie della razionalità. Non è vero che lo sguardo del mitopoieta si distragga nelle variazioni del molteplice, che si perda nella frivolezza del mondo esteriore. Egli, al contrario, ha sguardi tutti puntati sull’unità del molteplice (o, se si preferisce, sulla molteplicità dell’uno). Ciò che gli interessa è di immergersi nel mondo fenomenico per prendere contatto con la radice stessa da cui la vita viene. È la cosa in sé a catturare le sue attenzioni: quell‘inseità, quella verità, che giustamente Kant ha dichiarato inaccessibile alla ragione umana. E tuttavia, con buona pace di Kant, sarebbe ora di comprendere che la cosa in sé non può più venire ignorata. Oggi, più che mai, occorre ristabilire un contatto con le profonde radici dell’Essere (che è poi l’Essere che noi stessi siamo), dando corpo ad una nuova spinta mitopoietica, di inusitate ed inedite proporzioni. Solo così potremo tentare di uscire dall’impasse culturale in cui ci troviamo. E sarebbe opportuno avvertire Wittgenstein che non tutto il linguaggio è tautologico o convenzionale, perché l’uomo ha la capacità, a seconda delle esigenze, di pensare non soltanto in fotocopia, ma anche in originale. Quando si abbandona alla mitopoiesi, egli davvero pensa ed opera in originale, giacché il pensiero che gli viene dall’oltre (che è poi l’oltre di se stesso) non fa che nominare per la prima volta il mondo. Al di fuori di questo dire non c’è davvero nulla da dire, giacché c’è solo il detto e ridetto, o come suol dirsi il fritto e rifritto, utilissimo nella vita pratica, ma distante dalla vita reale, dalla vita delle origini, dove tutto è assolutamente originale. Socrate parlava di maieutica, ovvero dell’arte di far partorire, di tirar fuori (ex-ducare) ciò che nell’individuo esiste già come valore. Ci sono valori innati nell’uomo, che soltanto l’attività mitopoietica, la cultura creativa, ha il compito di rintracciare. Naturalmente non parlo di spontaneismo, ma di una facoltà anamnestica, autoanalitica, capace di riportare in vita valori totalmente dimenticati. Non dunque di una memoria, privata o collettiva, che conserva e tramanda eventi del passato. I valori innati appartengono ad un passato ancora più remoto, totalmente rimosso e caduto in oblio. L’innatismo dà voce ai principi che vengono dall’oltre (che è poi l’oltre di se stessi), mentre lo spontaneismo, con la variante dell’intellettualismo, dà voce ai pregiudizi costruiti nel laboratorio storico-culturale. Si sbaglia a credere che nell’intellettualismo ci sia problematizzazione: quella facoltà critica, ossia, che si ritiene fuori dagli orizzonti creativi, qualora si pensino ispirati dalla Musa. C’è un immenso lavoro da fare su se stessi affinché appaia la Musa. Questa, infatti, non è altro che un particolare volto o aspetto di se stessi, non ancora conosciuto. La vera attività critica risulta pertanto essere strettamente connessa con l’attività creativa, mentre nell’intellettualismo non si dà alcuna problematicità, giacché si viaggia a senso unico sul terreno dell’acquisito. Soltanto l’originalità è problematica, in quanto ha bisogno di essere corteggiata per concedere le proprie grazie e le proprie attenzioni. Colui che non coltiva le origini (le proprie origini), non ha un pensiero proprio, autonomo, ossia un pensiero problematico, lungamente sofferto e meditato, ma un pensiero duplicato su quello altrui.
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