Diversitá e pregiudizio – 6
Sempre più spesso, anche in un Paese come il nostro, sta avvenendo che per evitare conflitti si opti per la separazione o per forme ancora più drastiche di esclusione che portano alla ghettizzazione. D’altro canto, la convivenza forzata aumenta le possibilità che le diverse forme di pregiudizio vengano esercitate e confermate attraverso la subordinazione (professionale, sociale, sessuale, ecc). Il dilagare della piaga dello stereotipo si offre come una grande opportunità per chi è alla ricerca di un mostro da additare magari sulla scorta di un delirio di onnipotenza o come soluzione per eludere la paura, il conflitto e il senso di responsabilità di cui si parlava all’inizio. La cooperazione e la solidarietà, invece, diventano veramente costruttive quando ai gruppi socialmente più deboli si dà uno status paritetico rispetto a chi si trova in condizioni di vantaggio. La pari condizione (per esempio, lavorativa) aiuta a conoscere e a ri-conoscere nell’altro le stesse qualità umane e può essere un deterrente per il pregiudizio. L’esplosione del conflitto (in senso psicologico) ha infatti la sua valenza positiva nel momento in cui ha la capacità di mettere in discussione schemi mentali preconcetti e avvicinare le diversità al confronto e al dialogo. Se è vero, come sottolineano gli studiosi di scienze umane e sociali, che facciamo esperienza e conosciamo attraverso i nostri filtri culturali, i nostri schemi mentali, è anche vero che, stereotipi e convinzioni errate ci inducono a formarci una falsa coscienza, ma anche a familiarizzare con la realtà attraverso i nostri schemi interpretativi: vedere una “diversità”, una contraddizione per quello che ci appare, e non per quello che è sostanzialmente, è un atteggiamento molto più comune di quanto non si pensi. Un errore involontario che spesso impedisce di comprendere la verità di cose che restano nascoste o che ci sfuggono a causa dei nostri tempi, dei nostri ritmi serrati che ci impediscono di riflettere criticamente, su chi siamo e su chi e cosa abbiamo attorno a noi. In una società diretta verso una sorta di indifferenza e di distanza che diventano a loro volta omologabili come quella sensibilità pret a portait, figlia della moda, che colma spesso vuoti e incertezze, tutto viene messo sullo stesso piano in nome di un’uguaglianza che rassicura ma che spesso è fittizia. Mascheramento e svuotamento di ciò che non è immediatamente comprensibile ai nostri occhi, sono la reazione a quell’atteggiamento acritico di cui già si è parlato. Riconoscere la diversità come pari condizione di tutti gli individui, di tutte le culture, di tutte le etnie, potrebbe invece essere la maniera ottimale per cominciare a discernere per conoscere, e non a distinguere per discriminare, anche senza saperlo, ciò che appare come “diverso”. E questo perché se esiste un diverso, vuol dire che esiste un “diverso da…” e quindi un termine di paragone, un punto di vista. Una prospettiva esperienziale o socioculturale che ci permette di interpretare il mondo. Uscire dalla singolarità della propria ottica aiuta a vedere l’altro, non per escluderlo differenziandolo da sé, ma per “com-prenderlo”: cioè prenderlo con sé, riconoscerlo in sé, perché la diversità è un concetto ed anche una sostanza che appartiene ad ognuno di noi. Espressa in questi termini generici, una tale affermazione – impugnata, fatta propria e sbandierata da chiunque oggi – rischia di far scadere il tema nella banalità, almeno ad uno sguardo poco attento e superficiale. Ma al di là di ogni retorica espressiva, spesso svuotata del senso di verità che trasporta – occorrerebbe capire che il banale e l’inutile molto spesso sono solo quell’incomprensibile che non ha trovato una soluzione oppure che si trasforma in una certezza assolutistica utile a mascherare interessi di parte, di comodo, fornendo quindi un alibi alle coscienze. La società è mutata subendo dei cambiamenti radicali. Il nostro vicino di casa è spesso uno straniero (ma anche un italiano di colore, per esempio) e ciò purtroppo, spesso ancora mette a disagio o sorprende. Molte forme di diversità, non solo interetniche, si stanno scoprendo adesso. In tempi passati, la chiusura o la settorializzazione culturale, geografica, erano le categorie sulle quali si reggeva il mondo e le “diversità” non erano “costrette” a convivere perché le differenze e le identità erano ben delineate. Ora che le diversità s’impongono ai nostri occhi, ci accorgiamo che non le sappiamo gestire: forse perché non ne abbiamo fatto ancora una sufficiente esperienza; sicuramente perché dei retrogradi meccanismi di difesa ci spingono nuovamente alla separazione, alla ghettizzazione e alla repulsione: a tutte quelle forme di chiusura che oggi sono assolutamente anacronistiche e soprattutto nocive, perché occultando il nostro sguardo, ci impediscono di crescere criticamente e di protendere verso una nuova forma di maturità sociale e culturale che oggi stenta ad elevarsi al di sopra del pregiudizio, della fretta e della pigrizia – passiva e acritica – della nostra intelligenza. (Fine)
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