Diritto naturale e democrazia
In un tempo di profonda crisi culturale ed economica più insistenti si fanno sentire i sostenitori del primato della legge di natura, ritenuta eterna ed immutabile perché non data dall’uomo, applicata alla giustizia in contrapposizione al diritto positivo,
ovvero alla legislazione che gli Stati democratici (di questi trattiamo) si danno in vista della coesistenza in una società composita per condizioni, cultura e convinzioni diverse.
Ritengo tuttavia che occorra riflettere sul fatto che l’idea di natura non sia stata nel tempo ed ancora oggi non sia univoca, ma intesa difformemente a seconda delle culture e delle tradizioni. I cristiani la considerano opera di Dio e come tale va rispettata; per gli gnostici è creatura del demonio e bisogna guardarsi dalle sue bassezze. Madre santa e benefica per alcuni, matrigna crudele per altri. Persino la considerazione che l’uomo ha di se stesso e dei suoi simili cambia a seconda dei tempi e delle latitudini. Basta riflettere sulla condizione della donna, ritenuta angelo del focolare da rispettare e proteggere, fino ad oggetto di proprietà dell’uomo, a lui totalmente sottomessa.
Così il diritto che si ispira alla natura per alcuni è sinonimo di uguaglianza e rispetto della dignità umana, mentre per tanti secoli ed in tanta parte del mondo persino la schiavitù è stata considerata ovvia in virtù della selezione che opera per la conservazione della specie distinguendo padroni e servi a vantaggio del più forte. Più recentemente, il darwinismo sociale sostiene lo stesso principio, affermando che solo la natura permette l’avvicendamento; pertanto quando la società interviene a favore dei più deboli assicurando sussidi, cure mediche e scuole, permette la sopravvivenza e la proliferazione dei soggetti più deboli della razza umana a scapito della collettività che deve poi mantenere dei “parassiti”. È l’applicazione di questo principio alle razze che sovente ha portato a ritenere i razzisti veri paladini del diritto naturale.
Ciò che appare palese è che non esistendo un concetto di natura universalmente condiviso, è diversa la “legge naturale” a cui ci si riferisce e che varia a seconda della visione che del mondo ha ciascuna cultura. Come esempio possiamo confrontare i costanti e forti appelli della gerarchia cattolica alla tutela della vita in conformità con il diritto naturale, con un documento che egualmente si richiama al diritto di natura, l’opuscolo nazista del 1940 Du und dein Volk (Tu e il tuo popolo), sul tema dell’«annientamento dei malriusciti» (Vernichtung der Miftratenen) e delle «razze decadenti» (Die verfallenden Rassen), destinato in specie ai giovani in quanto più facilmente influenzabili. Ne risparmio l’esposizione al lettore, ma l’orrore che suscita non deriva dal travisamento della legge di natura, che viene anzi evocata per sostenere quei principi; bensì da ciò che sentiamo come un tradimento della cultura, della civiltà, dell’umanità e della religione, cose che non appartengono alla natura dell’uomo ma alla sua libertà.
Eppure dobbiamo constatare che su molti temi derivanti dalle mutate condizioni di vita, convinzioni etiche o da conquiste della scienza moderna, soprattutto nel campo della famiglia, unioni tra persone, aborto, contraccezione, eutanasia, genetica, si viva un profondo contrasto tra chi pretende che le “leggi di natura” siano ritenute preminenti rispetto alle istanze espresse dalle diverse componenti della società od ai prodotti dell’ingegno umano, che si dicono generati dal relativismo e dalla corruzione dei costumi e della morale. Per reazione agli errori, agli abusi e talvolta ai veri crimini permessi dalle leggi degli uomini, la legge di natura, considerata inalterabile e per tutti eguale, viene vissuta come un rassicurante argine al nuovo, inteso come illecito, errore, devianza.
Non ci sembra questa una soluzione alle contrapposizioni ed ai conflitti spesso drammatici dei nostri tempi. I fondamenti del diritto naturale infatti possono essere intesi e vissuti soltanto per intuizione, per convinzione metafisica sulle modalità e le finalità della vita umana, in altre parole “per fede” in quelle “leggi” date una volta per sempre e nel dogma che esse esprimono, e fede in chi quelle leggi ha dettate. Dunque chi non crede, ha una fede diversa o non si adatta a vivere “come se” l’avesse, è considerato un essere contro natura, un empio da combattere ovvero, nella ipotesi più misericordiosa, da convertire. Sembra quasi di scorgere la figura del cardinale Bellarmino che invoca l’autorità delle scritture per condannare Galileo.
È facile comprendere come l’insistenza intransigente su posizioni dogmatiche che fanno appello al terreno della natura, è quanto di più infecondo e pericoloso possa accadere nel nostro tempo, lacerato da così gravi problemi sull’esistenza e sulla convivenza degli individui e dei popoli. Ne sono testimoni grandi figure del mondo spirituale che, coerentemente al più autentico messaggio evangelico, hanno privilegiato il contenuto della carità, così interpretando il rapporto tra il Padre e il Figlio, l’amore del prossimo rispetto alle enunciazioni della “verità”, intesa come insieme di proposizioni dottrinali che si esprimono in codici di credenze e comportamenti.
Come accaduto per iniziativa delle gerarchie cattoliche in Italia, in modo analogo a quanto succede in altri Paesi per atteggiamenti che esprimendo forte critica vengono definiti integralisti, incitare alla disobbedienza alle leggi non soltanto cittadini ma intere categorie (medici, farmacisti, giudici ecc.) significa rifiutare il confronto delle opinioni, certifica il disprezzo delle altrui convinzioni, delle situazioni da cui sono generate, delle motivazioni che le giustificano. “Dio è con noi”, “Gott mit uns” è il grido superbo che percorre tragicamente la storia.
Ancora, un editoriale dell’Avvenire, in tema di unioni civili e sui diritti e i doveri delle coppie di fatto, esprime decisamente la contrarietà della Chiesa con termini inequivocabili. Il “non possumus” non esternare il dissenso viene definito “indicazione franca e disarmata di uno spartiacque che inevitabilmente peserà sul futuro della politica italiana“. Non si tratta quindi di un legittimo e lodevole suggerimento destinato alla coscienza dei fedeli affinché possano indirizzare le proprie scelte di vita; bensì di un monito preciso sul futuro della politica italiana, una ipoteca sulla vita dello Stato, destinati a non cadere nel vuoto grazie ai tanti cattolici-atei che affollano il nostro Parlamento. Tutto ciò in aperto contrasto con lo spirito del Concordato e della Costituzione repubblicana e, mi permetto di aggiungere, contro il vero spirito del messaggio evangelico che in nome dell’amore reclama comprensione, accettazione e del precetto “date a Cesare quello che è di Cesare e a Dio quello che è di Dio“.
In proposito mi sia consentito riportare alcuni tratti della omelia di padre Antonio Spadaro SJ, tenuta il 15 ottobre 2011 durante una S. Messa nella sede della prestigiosa rivista dei Gesuiti “Civiltà Cattolica”: «Dire che Dio è Signore della vita, è il Signore di tutto, non significa che dobbiamo aspirare a una teocrazia dove il potere ecclesiastico o “divino” sia la soluzione di tutti i problemi. È “di Dio” l’adesione totale ed esclusiva delle nostre persone, del significato della nostra vita, delle nostre “radici” profonde. Ma c’è una sfera “politica” che Dio affida all’uomo. L’Apocalisse, ad esempio, è chiara nella denuncia di un “potere divinizzato”. Nessun potere umano è divino, e dunque esso ha un ambito di autonomia che richiede discernimento, pazienza, saggezza, partecipazione… E questa visione ci libera da due tentazioni: lo spiritualismo che ci fa dire: Dio è tutto e il resto non vale nulla; e la teocrazia che ci fa dire che Dio deve essere imposto dovunque, e che il sacro deve dunque diventare potere politico».
Da alcuni si dimentica, o forse si vuol dimenticare, che proprio la democrazia tutelata dalla Costituzione permette la ridefinizione costante delle regole che reggono la convivenza; ma questo è un potere concesso alla collettività intera ed a nessuna parte in esclusiva. Neanche riteniamo corretto che ai fini della coesistenza si faccia appello alla tolleranza, concessione dell’assolutismo, poiché è la cittadinanza il fondamento e la peculiare essenza della democrazia. Ed è proprio la cittadinanza che permette agli uomini di buona volontà di ragionare insieme alla ricerca del buono e del giusto, secondo il dovere e con la responsabilità che la libertà attribuisce.
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