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Desiderio e riconoscimento

Desiderio e riconoscimento
Giugno 10
22:00 2010

HegelIl pensiero hegeliano, a mio avviso, può essere letto come una critica all’autoriferimento, o quantomeno come un pensiero che ha in questa critica la sua linea guida. Il termine Dialettica intende indicare sostanzialmente questo: un movimento intrinseco al soggetto che si afferma tautologicamente per poi negarsi, trovando solo nell’affermazione dell’altro la propria realizzazione e mantenendo, paradossalmente, in questo processo la propria identità. Un continuo, quindi, riferimento a sé e ad altro, un legame immanente di opposti che proprio perchè tali devono essere uniti, per generare dalla loro unione un movimento contraddittorio dal quale soltanto nasce la vita.
Secondo Hegel, la natura del determinato è di essere sempre in relazione all’altro, e la Dialettica non è altro che il farsi valere di questa struttura ontologica che appartiene al reale, ma che solo un pensiero adeguato, appunto dialettico, di un immanente oltrepassare, può farci comprendere. È come se il finito avesse in sé il principio del movimento: “io sono io e non sono altro, ma sono io più il non altro”; una relazione quindi escludente dell’intelletto che, in realtà, è costitutiva del reale poiché solo la contraddizione genera dinamismo. Le cose, per Hegel, non possono giacere immobili su stesse. La dialettica è, allora, la potenza di Dio, la forza del pensiero, quella che è la scintilla che è in tutte le cose e le porta a muoversi; bisogna allora imparare a sopportare la contraddizione, ad esplicitarla, perchè questa è in noi, e in noi risiede la sua dimora e la messa in crisi di ogni identità riferita al mero sé. Lo Spirito, in senso hegeliano, nasce allora dall’incontro di due autocoscienze, cioè di due soggetti che hanno per loro struttura ontologica una differenza interna, e che solo nel riconoscimento dell’altro da sé traggono la loro forza. È una lotta a morte tra due enti, e il superamento di questa stessa lotta, che non deve portare ad un inglobamento dell’altro in me, e di conseguenza al suo annullamento, ma ad una conciliazione che può avvenire solo tramite la mia stessa messa in discussione, la crisi della mia identità, in nome di un alterità sempre irriducibile. Il sacrificio del sé, la negazione determinata di un io che lascia spazio ad un altro, attraverso un gioco dialettico che deve approdare ad una sintesi tra due autocoscienze e al loro reciproco riconoscimento.
Deve essere un processo di autonegazione per il proprio ritrovarsi nell’altro, in quanto solo negandomi do cittadinanza all’altro, e lo lascio essere e in questo suo essere mi riconosco. L’autocoscienza diviene allora un movimento per cui “l’uguale si distingue, e il distinto si fa uguale”, una compresenza di identità e differenza, che non può essere solo riferimento a sé ma continuo rimando ad altro. Questo processo deve però, prima di approdare al riconoscimento, passare “attraverso il desiderio”, ovvero un movimento irrisolto di negazione dell’altro per l’affermazione della propria identità, che si rovescia poi automaticamente in una dipendenza dall’altro, come unico elemento che permette, attraverso la sua dissoluzione, la mia realizzazione. Il desiderio viene allora visto da Hegel come una negazione assoluta, una sorta di narcisismo di morte oscillante tra l’autosufficienza e la dipendenza del soggetto. Nel riconoscimento invece delle due autocoscienze entriamo nel “peculiare regno della verità”, nella vita intesa come costante fluire, come movimento dell’infinità, dove ci sono le differenze e il loro togliersi. Solo allora abbiamo il manifestarsi dello Spirito inteso come sostanza assoluta che si scinde da sé in autocoscienze diverse, libere e indipendenti, e che sul piano etico politico può essere inteso come il paradigma di unità che è in grado di dare la propria indipendenza a ciò che unifica; non quindi come forma di dominio, ma come espressione unitaria di individualità indipendenti e singolari. “L’Io è di fronte ad un altro e, nello stesso tempo, oltrepassa questo altro, il quale per l’io è altrettanto e soltanto l’Io stesso”. Ogni rapporto, d’altronde, è un abbandono della propria certezza, una perdita dell’identità e una simultanea apertura all’altro, per il raggiungimento stesso della propria essenza che avviene solo nel riflettersi reciproco con “un distinto che è un non distinto”.

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