Delmira Agustini – 6 – Un caso nella poesia ispanoamericana [2° parte]
Agosto 01
02:00
2007
La sua è, indubbiamente, una famiglia borghese colta, in grado di darle supporto e strumenti fin dalla più tenera età, e che, come per gran parte della popolazione dell’area, è di origini miste con ascendenze italiane. Nello specifico, ci sono tracce di un nonno francese, l’altro tedesco, mentre le due nonne sono già considerate come uruguaiane e la madre ha sangue argentino. Era solita comporre di notte, al lume di una candela o nel parco, dove si recava a passeggio oppure mentre suonava il piano, testimonianza, quest’ultima, resa a Machado dal fratello, unico e di cinque anni più grande di lei. Dieci anni dopo la sua morte, nel 1924, Maximino Garcia, amico di famiglia, pubblica due volumi inediti: “El rosario de Eros” e “Los Astros del Abismo”. Nell’edizione de “El rosario de Eros” l’editore include un racconto sulla vita di Delmira intitolato “Rumbo”, dove si limita certa propensione all’esagerazione sentimentale e che, apparentemente, si direbbe redatto dalla famiglia. Sia come donna che come poeta, tutto converge in un’unica ricerca, affrontata oltre ogni limite e ragionevole rischio, tanto da trovare una tragica morte ad attenderla nel suo cammino, e questo “tutto”, per lei, altro non era che l’amore. Aveva nella sua anima un’ansia della conquista dell’inconquistabile, il desiderio di un amore perfetto, abbagliante. “Tu che puoi tutto di me / In me devi essere Dio!” sono versi di una donna che potrebbe rivolgersi a Dio come se fosse un uomo e ad un uomo come se fosse Dio. Sono tematiche che non la vedono per niente così lontana, se non geograficamente, dalla mistica di Rumi, il quale osa rappresentare Dio come “Sposa” mettendoci però anche in guardia dalla misteriosa, totale ed assoluta forza che l’amore è capace di sprigionare. Delmira celebra il mistero dell’erotismo, traversa le paludi di un antico binomio: amore e morte. Vive con dolore il desiderio amoroso, una frustrazione che l’accomuna con l’antico modello di Saffo. Lambisce, più che conseguire, un livello mistico per un’innocente predisposizione del suo cuore ma, tuttavia, n’è a sua volta vittima in una follia intima ed implosiva, in tutto il masochismo che asseconda nel tentativo assoluto di conseguire amore. Eros, non a caso, viene da lei definito “padre cieco” e finisce col manifestarsi come una drammatica rivelazione. In “Otra estirpe” ci sono immagini forti, che scorrono attraverso la fisicità ed i relativi simboli, con piene allusioni ad un corpo ardente di passione, trasgressione e voluttuosità espressa nel linguaggio degli uomini, una linea che vedrà poi scrittrici come Juana de Ibarbourou (oltremodo Delmira è considerata anticipatrice delle tematiche del postmodernismo) ma anche Sylvia Plath e la stessa Sexton… Passione che, nondimeno, è espressa con un ideale d’innocenza, come nel caso di “En silencio”, aspersa tra i sogni, per infonderci della sacra ebbrezza (“La miel”) ma che è anche regale e oscura, progenie di una specie che si nutre di pianto (“El vampiro”). Valutare i confini tra la sua esperienza carnale e l’erotismo fantasticato, è argomento lontano dal nostro attuale mondo e modo di pensare, quindi da percepire in quel contesto, nell’alone di leggenda che quei tempi hanno reso comunque possibile. Resta, dopotutto, quel che doveva restare: i suoi versi, mai logori al di là del tempo, sempre sublimi e disarmanti, qualcosa di misterioso e che non si potrà mai fino in fondo spiegare. Resta una spontanea grazia devoluta in tutta la sua ossessione erotica, la memoria di una donna molto audace, un’anima tempestosa e spettacolare, capace di portare alla luce il più remoto intimo rendendone partecipe il lettore. |
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