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Delmira Agustini – 1 – Una poetessa dentro la cronaca nera [1a parte]

Delmira Agustini – 1 – Una poetessa dentro la cronaca nera [1a parte]
Marzo 01
02:00 2007

L’Uruguay: l’altra parte del globo, eco risorgimentale di tempi eroici per “due mondi” campioni, ma solo con la Rimet, rispettivamente nel ’30 e nel ’34. Primo novecento: il presidente Ordoñez è in carica e, nell’ultimo lustro (1911-’15), anche il “batllismo” ha contribuito a rendere questa terra in qualche modo illustre. Numerose leggi sociali sono state già promulgate e, a tutti gli effetti, l’Uruguay diviene il paese più progressista d’America. Otto ore lavorative conseguite nel 1915 e previdenza sociale, incluso per indigenti, approvata nel ’19. Governa un partito “Colorado” non privo di riferimenti al socialismo, ma anche liberale, di tendenza laica ed anticlericale, prossimo agli interessi della borghesia urbana. I “Blancos”, nel locale bipartitismo, sono l’opposizione storicamente legata al latifondo e principi conservatori. Partiti minori, come quello Socialista e l’Unione Civica, pur costituendosi da inizio secolo, qui non avranno mai un consistente seguito. Una legislazione della famiglia all’avanguardia, con l’introduzione dello strumento del divorzio fin dal 1907, è una realtà già tangibile in questo paese. Il 5 giugno del 1914 Delmira Agustini ottiene un pronunciamento di sentenza e, da quel momento, Enrique Job Reyes diventerà il suo ex marito. Lo stesso mese, il 29, avviene l’attentato di Serajevo e la conseguente prima guerra mondiale. Una settimana dopo, il 6 luglio, a Montevideo è una sera come le altre che vede Delmira dileguarsi, col favore della penombra, sulla Calle San Josè, dove era tornata a risiedere con i genitori. Un passo sostenuto, a tratti affrettato; va, a testa bassa, decisa, con un’espressione malinconica ed incompresa stampata sul volto, in un rituale che sembrerebbe essere stato già consumato molte altre volte. Traversa tre isolati, poi volta sulla Calle des Andes e s’intrufola in uno stabile, luogo di un probabile appuntamento. Di lì, non ne uscirà più viva. Poco più tardi, una sequenza di spari richiamerà l’altrui attenzione: scatta l’allarme. Giungono sul posto autorità e stampa. E’ nuda, prossima al letto, con le calze ancora scese; capace ancora, per i tempi, di suscitare meraviglia e scandalo. Enrique, trovato in fin di vita insieme a lei, non c’è più, è stato portato d’urgenza all’ospedale, dove morirà un paio d’ore più tardi. Resta Delmira, sul pavimento, freddata con due colpi in testa all’istante: la sua foto subito immortalata dai giornali. “Dramma orribile e strano” è il commento nello sgomento dell’epoca per il fatto e disorientati si resta anche oggigiorno per talune conclusioni improntate dai cronisti: “I due si amavano, erano la coppia ideale”, suona, a dir poco, retorico ai nostri tempi. Inoltre, scartabellando scartoffie, si scopre che il divorzio è stato da lei richiesto poco dopo il matrimonio e con procedura d’urgenza per “agravios graves”. Delmira conosce Enrique a ventidue anni, una relazione che dopo un quinquennio culmina con un matrimonio, separazione e divorzio, pronunciato dopo appena sei mesi. Sua madre, per la cronaca, è contraria alle nozze. La coppia, in ogni caso, continua a vedersi clandestinamente durante tutto il periodo del processo. Stesso grado sociale, ambedue provenienti da famiglie borghesi ed agiate ma, mentre Delmira va sempre più affermandosi come poetessa di gran talento tra gli intellettuali dell’epoca, Enrique è tacciato di essere poco incline al mondo artistico e lei stessa, separandosi, lo definirà un “vulgar”. Ipotizzabile, come del resto hanno concluso in molti, che il movente sia la gelosia. Di certo vivevano grandi difficoltà nel loro rapporto amoroso e, forse, il “vulgar” aveva tanta sensibilità che non riusciva a trovare comprensione nei suoi confronti. In una lettera di Delmira, emergono i ricordi di come lui si oppose a possederla, quando fu lei a proporglielo. Uomo, in ogni caso, di un altro secolo, un sanguigno appassionato in una Montevideo che, nel non lontano 1995, Sandro Veronesi percepiva ancora in una “concezione orgogliosamente antimoderna della dinamica sociale, fatalista, quasi risorgimentale”. (Segue)

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