Dante teologo – 2
Dante non rientra nella definizione di teologo nel senso stretto del termine; semmai, egli usa la teologia perché non può farne a meno, in quanto l’al di là glielo impone, dalla prima alla terza cantica, soprattutto il Paradiso. Infatti, se si fanno le differenze delle varianti fra le tre cantiche, ci si accorge che la prima ne ha molte, perché i trascrittori, siccome la materia si basa sulla fabula umana che ha preponderanza sul processo dottrinario, si sono permessi di inserire qualche personale sintagma etc; nel Purgatorio, invece, poiché favola umana e processo dottrinario si equiparano, le varianti sono minori; quasi nulle nel Paradiso, ove è totale la citazione dai Sacri Testi, dai Padri della Chiesa, dai Dottori etc. Gli amanuensi hanno avuto un religioso rispetto per la materia. Ma proprio nel più cristiano dei regni, cioè il monte del Purgatorio, che per primo Dante immette nel suo poema (i precedenti della scuola veneta, cioè Bonvesin dalla Riva e Jacopo da Varazze, hanno descritto solo la Babilonia Infernale e la Gerusalemme Celeste), troviamo una grande trasgressione: il guardiano del monte che ha al culmine il Paradiso Terrestre, è un pagano, per di più suicida. Vi pare poco? Si tratta di Catone Uticense, personaggio ruvido, quasi antipatico nel suo modo di fare brusco, terribilmente schivo da captatio benevolentiae, pronto a rimproverare anche Virgilio per il momento di tenera umanità offerto dall’incontro dei due pellegrini con il musicista Casella. La critica si è affannata a liberare Dante dall’accusa di estrema licenza nella scelta del severo ‘ufficiale’ del Purgatorio, dicendo che il Poeta aveva voluto indicare in Catone Minore un esempio supremo di eroe, anzi martire, della libertà. Non gli sarebbero mancati uomini adatti allo scopo, senza essere stati pagani e suicidi. Anzi, c’è di più: quando Cristo scende all’inferno per liberare i patriarchi ebrei, porta via con sé pure Catone. Insomma, si vede ancora una volta (per riallacciarmi al precedente articolo Dante e l’omosessualità) come l’Alighieri preponga alla teologia l’ammirazione per il contenuto umano, cioè per quello che i personaggi hanno operato in Terra. Se ciò non bastasse, potremmo portare cento esempi incontrovertibili alla nostra tesi. Prendiamo quello di Gioachino da Fiore (vedi il XII canto del Paradiso), profetico monaco fondatore dell’ordine dei Florensi, aspramente criticato nelle sue dottrine da san Bonaventura e qui – nella corona dei beati del quarto cielo, quello del Sole – posto a fianco proprio a colui che aspramente combatté i gioachimiti. Inoltre, nel canto X, nella prima corona di beati, vicino a san Tommaso d’Aquino sta Sigieri di Brabante, le cui idee erano state criticate dal massimo filosofo della Scolastica. Se non si legge la Divina Commedia nella sua luce trasgressiva, si perde gran parte del suo significato. Ma conoscere Dante è arduo, perché spesso ci si ferma ai canti canonici, o alla dolcezza paesaggistica del “dolce color d’oriental zaffiro”. Il Poeta profeta e laico è il ghibellin fuggiasco (come bene lo definisce Foscolo), la cui storia coraggiosa di antesignano della civiltà, si cerca di aggirarla, perché scomoda ieri, e altrettanto – o forse di più – oggi.
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