Danno da nascita indesiderata
Il caso di cui si tratta riguarda la nascita di una bambina affetta da una sindrome non accertata durante la gravidanza mediante accertamenti approfonditi. Viene quindi chiamato in causa il medico a cui viene chiesto un risarcimento per il danno subito, in quanto la donna dichiara che avrebbe optato per l’aborto se avesse saputo in tempo della sindrome di cui sarebbe stata affetta la nascitura. La legge 194/1978 , “Norme per la tutela sociale della maternità e sull’interruzione volontaria della gravidanza”, ha introdotto la possibilità legale, quindi il non-reato, di ricorrere all’aborto, legittimando l’autodeterminazione della donna a tutela della sua salute, e non solo della sua vita, rispettando evidentemnte delle condizioni molto rigorose. L’articolo 1 della legge in questione si pone infatti come caposaldo della negazione dell’interruzione della gravidanza come strumento di programmazione familiare, come a dire, questa gravidanza non era voluta o particolarmente desiderata e quindi la rifiuto. Assolutamente no. Si stabilisce infatti che lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio. Espressamente si afferma che l’interruzione volontaria della gravidanza non è mezzo per il controllo delle nascite. In particolare all’articolo 6 si stabilisce che l’interruzione volontaria della gravidanza, dopo i primi 90 giorni, può essere praticata solo in determinati casi e cioè quando la gravidanza o il parto comportino un grave pericolo per la vita della donna; quando sono accertati processi patologici, tra cui quelli relativi a rilevanti anomalie o malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna.
Ora nel caso di specie la nascita della bambina affetta da una malattia si imputa alla responsabilità del medico che non ha effettuato determinati accertamenti volti ad assicurarsi della salute del nascituro. Durante la gravidanza infatti la gestante si affida ad un professionista su cui grava l’obbligo di rispondere in modo tecnicamente adeguato alle sue richieste, considerando inoltre che un medico non può soffermarsi alle richieste e/o direttive della paziente, che chiaramente non ha una preparazione idonea a poter prevedere e valutare ogni possibilità.
Al di là di ciò ai fini della leggitimità o no dell’aborto permane comunque la necessità di valutare la sussistenza del pericolo per la salute fisica o psichica della donna, in quanto senza ciò l’aborto costituirebbe un reato. Quindi sostanzialmente gli elementi essenziali a tal fine sono: anomalie del nascituro; omesse informazioni da parte del medico curante; grave pericolo per la salute psico-fisica della donna; da ciò può poi derivare la scelta di abortire. Nel caso esaminato emerge anche la richiesta della donna di chiedere un risarcimento da parte del nascituro stesso, che certamente viene tutelato dalla legge dal momento stesso del suo concepimento. Ora, ciò che però non può essere assolutamente condiviso è affermare che ad una vita con una malattia sia preferibile non nascere affatto e che quindi avere un figlio affetto da una sindrome costituisca un danno. Appellarsi alla necessità di un’esistenza sana e dignitosa non può essere giustificazione per prefeire l’aborto alla vita, per affermare che una vita con una malattia è una non vita.
La Cassazione accoglie quindi la richiesta di risarcimento in relazione alla violazione dell’articolo 6 della legge 194/1978 oltre che di altre norme del codice civile, laddove l’impedimento all’esercizio del diritto di interrompere la gravidanza mediante i dovuti accertamenti era di per sé sufficiente ad integrare responsabilità del medico. Diversamente rispetto al diritto del nascituro, per mezzo dei familiari, di chiedere un risarcimento per essere nato malato. Poiché in tal caso l’alternativa riguarda la possibilità dell’aborto e quindi che il figlio piuttosto che nascere malato era meglio non fosse nato affatto, non è possibile riconoscere il diritto al risarcimento, perché la vita, e non la sua negazione, è sempre stata il bene supremo protetto dal nostro ordinamento e speriamo resti sempre cosi.
Cassazione sent. 25767/2015
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