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Dalla cattedra del colpevole

Agosto 27
08:30 2010

Nelle scuole a parlare di bullismo, senza indebite appropriazioni, sfuggendo l’elargizione dei soliti consigli, perché su questo fenomeno accade di sentire che il mondo adulto, professorale, genitoriale, è confuso, perché non è sufficientemente formato per accorgersi, eventualmente per indagare, intervenire, aiutare, non è attrezzato per mettersi di traverso a questo proliferare di guerrieri in erba.

Eppure una buona dose di intenzionalità al fare male, di persistenza nell’usare il colpo di taglio, una asimmetria a dir poco scandalosa, non possono restare sottotraccia, non consentire un più appropriato accertamento su quanto si genera in una classe e si rigenera intorno a noi.

Forse per reimpostare il presente, occorre un po’ di pedagogia della nonna, ossia del buon esempio, che riporta consapevolezza del rispetto come valore inalienabile, persino per chi lo ha sempre inteso come una merce di scambio. Rispetto che non è, non può essere inteso come una “deferenza dovuta” molto in voga in certe sottosocietà coperte, bensì rispetto dell’attenzione, considerazione, riguardo per le persone, per le cose, per le regole, e questo rispetto lo si apprende unicamente attraverso l’esempio di riferimenti autorevoli, perché accreditati di autorità, che non hanno paura della fatica per tirarci su dal baratro in cui sovente siamo caduti, in quel dirupo che spesso scaviamo a nostra misura.

Dentro una scuola e una classe anonima, con una bravata ripetuta all’infinito, una ragazzata autorizzata a passare inosservata, si comincia sempre così, ma spesso dietro l’angolo c’è la tragedia, il recinto dove tutto può esser condiviso, persino la follia più lucida, inaspettata, imprevedibile. Parlare di bullismo fa paura perché semplicisticamente disconosciamo, perché ci illudiamo che non capiti a noi, a nostro figlio, piuttosto succede al tuo, non al mio, siamo illusoriamente a distanza di sicurezza, eppure non è per niente un fenomeno celato, siamo allarmati, spaventati, preoccupati ma ipocritamente, mentre nelle aule si pesta e si rompe, sotto casa si spaccia, si consuma, si vende, si compra.

Il bullismo è percepito come una prova che mette chiarezza, da una parte l’imperatore e i suoi viceré, tra omertà e aggressività che sfocia nella violenza, in mezzo la tribù degli impauriti plaudenti, quelli che fanno consenso di partenza e mai di arrivo, per ultimo l’angolo dello sfigato, del più debole, della carne da macello, quello da cui mai bisogna venire contaminati, mai correre il rischio di affiancare, perché si finisce minoranza.

Una sorta di sottosocietà dell’io vinco e tu perdi, non si fanno prigionieri, il ruolo non è riconosciuto, a volte neppure il valore della persona. L’adulto c’è, esiste, eppure nel gruppo dei pari, dove la battaglia infuria, non c’è alcun riconoscimento, perché s’è inabissato con tutto il suo carico di esempio-autorevolezza-autorità. Occorre prendere posizione e metterci di traverso per portare il pensiero su stati della mente e del cuore altrimenti difficili, per non riconfermare il rifiuto delle regole che invece sono spesso vere e proprie salvavita, a tutela dei deboli e a tutela anche dei falsi vincenti, per non ricadere negli stessi errori, quelli che a volte non hanno altra riparazione che il perdono.

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