Dal teatro classico agli attautori di oggi
Una volta c’erano gli autori. Anzi, molti autori. Autori di teatro, intendo, perché solo di questo vorrei parlare: degli autori di teatro. C’erano molti autori, una volta, che producevano molte opere sceniche: commedie, tragedie, drammi borghesi, commedie brillanti, recitativi corali, monologhi… E c’erano, ovviamente, ancor più numerosi attori che si preoccupavano di portare sul palcoscenico tutti, o quasi tutti, quei parti della fantasia e dell’ingegno.
Ognuno aveva il suo ruolo: gli autori alla scrivania, e talvolta anche in teatro a dirigere o controllare la messa in scena della propria produzione, e gli attori in teatro, e talvolta nella vita di strada, impegnati a immedesimarsi e a dar vita a personaggi partoriti dai neuroni altrui. Pirandello (uno dei tre o quattro scrittori cui dobbiamo riferirci ogni volta che vogliamo capire i segreti dell’arte drammatica) spiegava che i personaggi hanno una vita propria, indipendente da quella di autori e attori; ma sapeva altrettanto bene che i personaggi non avrebbero potuto esistere nella nostra dimensione, se non avessero impregnato del loro soffio vitale sia gli autori che gli attori.
Le cose hanno proceduto più o meno così per secoli, anzi direi meglio: per millenni. Poi però, a un certo punto, cioè verso la fine del secolo scorso, è intervenuta la crisi, anzi direi meglio: le crisi. Una crisi di idee, perché con l’ampliarsi della società e delle comunicazioni internazionali il mondo è rimasto sommerso da una tale infinità di opere letterarie – e quindi anche drammatiche – da far sembrare che ormai fosse stato detto tutto, o quasi tutto. L’ispirazione e la creatività degli autori di teatro è parsa esaurirsi: o meglio, chiudersi nel privato e nella dimensione individuale, come è accaduto agli autori di romanzi e ai registi. Una crisi economica, che ha spinto sensibilmente a una drastica riduzione dei componenti delle compagnie teatrali, degli allestimenti scenici, dei compensi agli autori. Una crisi “da concorrenza”, che ha spinto frotte di autori e di attori a preferire i più “comodi” cinema e televisione, invece dei polverosi assiti dei teatri.
Risultato: dopo un attimo di sbandamento, un consistente gruppo di attori con il piacere di calcare il palcoscenico ha voluto tornare al teatro, ma con spettacoli diversi da quelli tradizionali. Con spettacoli, cioè, ideati da loro stessi, scritti da loro (o da ghost writers personali) per se stessi, e portati in scena da loro stessi con l’eventuale compagnia di solo uno o due colleghi. Gli autori tradizionali sono rimasti per lo più fuori gioco. Le opere sceniche tradizionali, “classiche” o “borghesi”, sono state quasi tutte messe da un canto. La fantasia e la creatività libere si sono spente, per adattarsi alle peculiarità individuali di questi attori eterni protagonisti. E perfino il modo di recitare è stato modificato, mirando soprattutto a colpire la sensibilità degli spettatori con opere brillanti, comiche, rarefatte o stranianti, e non più la loro intelligenza, i loro valori morali, la loro psicologia.
Quel che è derivato da una simile trasformazione, pur talora molto interessante, è stata la morte di un certo teatro classico e la nascita di una nuova figura di artista: l’attautore, l’attore autore che, analogamente al cantautore, preferisce rappresentare proprie opere e non quelle di altri. Una svolta innovativa, nella storia del teatro, che meriterà probabilmente seguire da vicino, per capire dove porterà. E se porterà da qualche parte.
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