Da munello ho visto o Paradiso
Chi prendesse in mano il libro di Umberto Tirocchi, rimarrebbe forse meravigliato, se non confuso, dalla scrittura che egli adotta per ricordare momenti della sua vita. In realtà, prima di accingermi a stilare queste poche righe, ho voluto consultarmi proprio con l’autore e con il suo inseparabile amico Antonio Sandroni (entrambi miei amatissimi alunni al primo impegno fisso con la scuola: avevo 23 anni e loro non più di sette-otto: una classe di cui farei ogni nome se la necessità della stringatezza non mi imponesse di cogliere il nocciolo della presente questione). Ed ecco cosa devono sapere i lettori: quel misto di linguaggi (principalmente tre: italiano, ariccino e inglese, ma con qualche intrusione di “neologismi” di conio di Tirocchi), fusi e alternati secondo un modo interiore di cui non chiederemo il motivo all’autore, sono una sorta di invenzione semantica a fine gnomico ed espressivo. D’altronde altri scrittori, e di gran vaglia, hanno operato misture vivacissime (Gadda, ad esempio) nella parlata nazionale con immissione di vari dialetti tutti filologicamente esatti e verificabili. Tirocchi non segue la “lectio” filologica, ma adatta al suo gusto accelerato di narrazione a voli pindarici alcuni termini, locuzioni gergali modificate intorno alla lingua media, anglismi rivisitati attraverso la sua pratica dialogica con la moglie inglese, per cui sintagmi, frasi o addirittura periodi sono avviluppati in un gioco espressivo del quale bisogna cercare la chiave di interpretazione onde godere sia del ritmo narrativo sia dei ricordi talvolta vibranti e commoventi.
Dopo i brevi ma intensi ricordi di scuola, ci sono due “parentesi” riguardanti un paio di incidenti che hanno segnato il nostro amico. Poi c’è il brano del servizio militare (e la sola parola Celio mi ha riportato ai tempi “arcaici” della mia mezza naja); ed il momento più bello, quindi il plurimo episodio dell’emigratore (così conia questa parola Tirocchi, risvegliandomi alla memoria un tema che svolse in ben 14 pagine – mi pare in terza elementare – al quale misi 10 per la pregnanza della scrittura e per la compattezza delle descrizioni di fatti veri).
Dopo alcuni mesi dal momento in cui Umbertino mi ha dato il suo plico, eccoti un’aggiunta, sulle nozze del nipote.
Ripeto: non stando nelle regole di una prefazione svelare le trame, è dovere mio descrivere le impressioni che ho avuto alla lettura del testo. Siccome ogni lavoro rispecchia – direttamente o indirettamente – la personalità dell’autore, ho ritrovato nel libro l’impetuosità animosa e cordiale, il palpito vitale emotivo di Umberto, vale a dire una generosità del cuore che diviene “sapientia cordis”. È una lettura “sui generis”: o la si accetta così, o le pagine restino chiuse. Un “tranche de vie” che risulterà più autentico per chi conosce l’espansività di Tirocchi, il quale è rimasto orfano del padre in tenera età e si è formato da solo in un equilibrio psicologico versantesi all’esterno, nella coralità che è sempre segno di altruismo e di bontà d’animo.
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