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Cluniacensi e Cistercensi e la regola del silenzio

Cluniacensi e Cistercensi e la regola del silenzio
Aprile 07
19:06 2013

Papa Urbano II consacra l'altare del monastero di ClunyNel Medioevo la vita monastica era principalmente contemplativa, cioè orientata verso un’unione mistica con Dio. I monaci praticavano, infatti, una vita ascetica. Dal greco ‘askesis‘, il termine ascesi indica un esercizio di allenamento di un atleta, per il superamento di una prova. Nel nostro caso, indica una condizione di vita volta a realizzare valori superiori. Nei centri monastici vigeva la regola di sfuggire l’ozio, considerato uno dei sette peccati capitali, praticando, quindi, una vita attiva. La regola Hora et labora arriva più tardi, con San Benedetto, che scandisce le attività del monaco in orari precisi. Il monachesimo nasce contemporaneamente alla diffusione del Cristianesimo e la sua dottrina è fondata sui testi evangelici.

Fondamento principale era il passo “va’, da’ tutto quello che hai ai poveri e seguimi” (Luca 18, 22), e la Lettera di San Paolo, nella quale si invita a praticare la castità. Con il passare degli anni, i monasteri continuavano ad essere popolati di vocazioni, evolvendosi subivano cambiamenti, fino al raggiungimento del loro splendore. Intorno al X secolo, in Borgogna, a Cluny vi era uno dei monasteri più famosi, in cui vivevano i monaci chiamati cluniacensi. Sorto in conseguenza a una donazione territoriale da parte degli aquitani, nell’intento di ottenere in cambio ricompense celesti. La proprietà spettava alla chiesa e il Duca di Acquitania aveva rinunciato al diritto di avocazia, cioè di poter richiamare a sé la proprietà donata. Il monastero aveva sempre vantato grande prestigio, così come uno dei suoi abati, Pietro il Venerabile. Anche a Citeaux vi era un prestigioso monastero abitato dai monaci detti cluniacensi con a capo San Bernardo di Chiaravalle. I due monasteri rispettavano la regola di San Benedetto con qualche diversità. Abbiamo, infatti, testimonianza di un’aspra diatriba tra i due abati dei rispettivi monasteri. Si tratta di uno scambio epistolare, durato tre giorni, il dialogus duorum monacorum, avvenuto nel XII secolo e pubblicato solo dopo la morte di San Bernardo, quindi dopo il 1153, sotto il periodo di Federico Barbarossa, in Germania, ad opera di un maestro che si firma con il nome Idungo, di cui conosciamo alcuni particolari della sua vita. A causa di una malattia era entrato in un monastero austriaco cistercense, Prüfening, dove, dopo essere guarito, si era fermato anche per usufruire della biblioteca. Tra le sue mani erano, così, rinvenute le epistole del dialogo. Il testo risulta prolisso, suddiviso in tre parti ad indicare i tre giorni in cui si svolge la disputa. Idungo scrive il prologo confidando di essere particolarmente sensibile alla questione, giacché aveva cambiato ordine proprio da cistercense a cluniacense e alimentava l’attrito tra i due ordini. I cistercensi peccavano di presunzione, poiché vedevano nel loro ordine l’osservanza più rigorosa alla regola di San Benedetto e accusavano i cluniacensi di non essere rispettosi. Uno dei punti più contestati riguardava il rispetto del silenzio, sancito dalla regola di San Benedetto, che nel dialogus era contrapposto al vano e ozioso conversare. I cluniacensi erano accusati di non rispettare il silenzio, non solo esteriore, ma soprattutto interiore, del monaco stesso, praticato al fine di raggiungere la pace interiore. Pietro, nella controversia, cita anche un passo del vangelo in cui si condannano le parole oziose: “Di ogni parola oziosa che gli uomini diranno Dio ne prenderà atto il giorno del giudizio” (Matteo 12, 36) . Invece, San Benedetto prende spunto da questo stesso passo per esaltare il silenzio, ritenendo la parola oziosa inutile, priva della ragione o dell’intenzione, o di entrambe. I monaci cluniacensi erano accusati di peccare di ozio poiché se intenti a parlare e a conversare non producevano attività lavorativa. In sintesi, i problemi sollevati riguardavano il concetto di otium, il rapporto tra otium e lavoro, la distinzione tra vita contemplativa e vita attiva. Pietro il Venerabile sosteneva di dover occupare il tempo con letture e preghiere liturgiche. San Bernardo ribatteva citando l’attività di otio contemplationis, secondo cui la preghiera richiede meditazione, per giungere ad un otius sanctus, cioè unione mistica con Dio. Bernardo invitava i monaci a cambiare il passo da meditare, per non cadere nella noia. Sosteneva che attraverso la preghiera, la lettura, la meditazione il monaco lavorava non solo con la mente, bensì con tutto il corpo, elevando queste attività al pari di un lavoro fisico. Il tutto aspramente contestato dai cistercensi. Oltre a questi aspetti teorici, i monaci avevano discusso anche sulla scelta del colore dell’abito, in quanto era criticato il colore bianco, ritenuto un colore angelico e non adatto ad un monaco. Ancora, la disputa verteva sull’arte. I cistercensi accusavano i cluniacensi di aver abbellito troppo le chiese e il monaco, durante la preghiera, veniva distratto dalle immagini. Secondo i cluniacensi l’arte visiva serviva al monaco, per entrare in preghiera e attuare l’unione mistica con Dio; rappresenta ciò che il monaco cerca e lo aiuta ad avere un contatto ultraterreno. Inoltre, le immagini nella chiesa hanno il ruolo fondamentale di predicare al posto della parola, parlano senza parola al pubblico di analfabeti, allora diffusi, quindi sono di valido aiuto per il rispetto della regola del silenzio. Spesso, nelle grandi chiese, gli architetti progettavano archi e colonne, per ricreare attraverso di loro una sequenza simile agli alberi, in modo da ricreare una sorta di luogo immerso nella natura, in cui la preghiera e la meditazione era suggestionata dall’ambiente. E quindi l’arte era ed è un tramite per avvicinare a Dio e non certo per distogliere.

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