City of Blinding Lights
Ci vogliono circa 10 ore di volo per scoprire l’America, ma ne vale la pena. Non appena scendi dall’aereo capisci di essere in un altro continente. Un continente dove le guardie dell’aeroporto (Newark, in questo caso) sono giovani, perlopiù di colore, e hanno divise nuove di zecca, senza una sola macchia o piega. Danno un’immagine di sicurezza e perfezione. Sono gentili e sorridenti, nonostante il costante allarme-sicurezza. Allo sportello di controllo la guardia prende il tuo passaporto, ti osserva, poi indica un aggeggio sul quale devi appoggiare prima l’indice sinistro e poi il destro. Quindi ti scatta una foto digitale e chiede la durata e il motivo della visita. Ti saluta con un «Welcome to the United States» che quasi ti toglie il fiato perché, carico com’è di patriottismo, ti fa comprendere che gli abitanti di questo posto amano vivere qui. Incredibile ma vero! Quella guardia ripeterà la stessa frase a migliaia di persone ogni santo giorno, eppure non c’è una sola goccia di noia in quel mare di parole. Quando arrivi al ritiro bagagli, le valigie stanno già scorrendo sulla lunga lingua nera. Un treno ad alta velocità di porta a New York in 20 minuti per 14 dollari. Questo tu non lo sapevi, ma te l’ha spiegato una signora sulla quarantina, in divisa, e visto che tu non capivi bene le sue parole (il tuo inglese ha un effetto emetico su chiunque sia nel raggio di 5 metri), non solo te l’ha ripetuto 3 volte, ma alla fine ti ha accompagnato allo sportello automatico, aiutandoti nella procedura. Infine, sorridente, ha indicato le scale mobili per arrivare alla stazione.
Durante il viaggio in treno la gente osserva la tua valigia e poi si avvicina, attaccando discorso. Non appena scopre che sei di Roma allarga le labbra in un ampio sorriso e ti racconta aneddoti su vecchi viaggi in Italia. Tutta questa cordialità ti sconcerta, perché, da bravo italiano, ti aspettavi di essere trattato in maniera schifosa, scontrosa o, nella migliore delle ipotesi, semplicemente ignorato. Già ti vedevi accoltellato e sanguinante mentre ti trascinavi lungo il vagone alla ricerca di qualcuno che chiamasse il “famoso” 911 anziché fregarti valigia, portafogli e bagaglio a mano.
Incontri personaggi da romanzo: c’è un texano col cappello da cowboy e uno zaino scucito che si vanta di aver girato mezzo mondo e di aver visitato «un giorno, uno solo» Roma. Che diavolo avrà visto, in un giorno, non osi chiederglielo (anche perché non troveresti le parole in inglese).
Quando arrivi alla Penn Station, più o meno nel centro di Manhattan, e sali i gradini che ti portano in città, è come se un lottatore di sumo ti fosse saltato addosso, con la rincorsa: New York ti colpisce allo stomaco, alla testa e infine al cuore. Ti rendi conto che stai trattenendo il respiro e riprendi a far funzionare i polmoni.
Ogni cosa, ogni singola cosa, ogni singola minima cosa, è gigantesca. Tutto è smisurato, apparentemente governato dal più totale caos, veloce e rumoroso. E c’è così tanta gente che va e viene, persa nei propri affari. Nessuno ti degna di uno sguardo. New York odora di hot dog bruciacchiati, di pioggia fredda, di cemento fresco. Alzi lo sguardo e ovunque sei circondato da insegne luminose, taxi, luci accecanti. Ti accorgi che sta piovendo, ma non importa. Il semaforo dice che puoi camminare, così trascini la valigia sulla 34th West cercando di osservare tutto. Ti unisci alla folla e in un baleno sei parte della Grande Mela. In un certo senso è come se lo fossi sempre stato: New York non ha una propria anima. New York non ha una propria personalità. New York è il risultato di mille anime e mille culture diverse, che convivono in uno spazio ridotto cercando di non uccidersi a vicenda.
Questa è la sua enorme potenza. Il tuo albergo si trova sulla 32th East, così devi percorrere un buon tratto di strada a piedi. Lungo la 34th incontri negozi di ogni tipo: ristoranti cinesi, grandi magazzini, Starbucks, negozi di souvenir. A New York nessun negozio è gestito da americani, così come è più facile trovare un cammello che un tassista americano. Cinesi, pakistani, indiani, italiani, irlandesi, perfino qualche francese. Ce n’è per tutti i gusti. Il tuo albergo, che si trova ad un passo dall’Empire State Building e costa un occhio delle testa, è infatti gestito da due indonesiani che parlano un inglese assolutamente incomprensibile. Quando tiri fuori la Mastercard ti allungano una tessera magnetica dove scrivono il numero della tua stanza. Pochi minuti per sistemarti e ti trovi davanti all’Empire State. Provi a fotografarlo da vicino, ma è impossibile se vuoi prenderlo tutto. La gente fa la fila all’ingresso e intanto guarda in alto, nel tentativo di vedere la cima di questo mostro maestoso e magnifico. All’interno guardie gentili ti guidano nell’atrio e poi su per le scale. Il biglietto costa 14 dollari e non puoi portare videocamere e macchine fotografiche.
Trovi la cosa scandalosa e te ne vai.
Camminando lungo la 5th Avenue cominci a scattare foto e osservare con crescente entusiasmo ogni cosa. Entri da Starbucks e prendi un caffé americano, quello che hai visto in tanti film e che, come sospettavi, è una brodaglia nera con un retrogusto amaro di caffeina. Lo butti nel primo cestino che incontri.
Midtown Manhattan è la zona centrale, ottimo punto di partenza. C’è il Madison Square Garden, imponente nella sua bellezza. L’Arena più famosa del mondo. All’interno ci sono negozi, bar, botteghini. Imbocchi la Broadway e cammini fino a Times Square. Si sta facendo buio e l’atmosfera è unica: c’è così tanta gente da costringerti a camminare quasi in mezzo alla strada. Times Square e il distretto dei teatri è un’esplosione di luci e pubblicità, di commercio e sfarzo, di arte e creatività. Puro stile newyorchese. Vedi file ordinate di persone in attesa dell’apertura dei teatri. Nessuno che urla, che sgomita, che cerca di passare la fila facendo il furbo. Vedi l’Ed Sullivan Theatre, gli Actor’s Studios, il Radio City Music Hall, il Rockfeller Center, la cattedrale di San Patrizio. Traffico e rumori sono insostenibili, ma scivolano via come se non esistessero. I grattacieli sovrastano ogni cosa, a volte ti sembra di soffocare in mezzo a tutto questo cemento e a questa gente. Quasi ti stupisci nel vedere un piccolo parco, qualche albero sopravvissuto all’olocausto edilizio.
Per il ritorno prendi un taxi, altra esperienza che non puoi perdere. Con 5 dollari ti porta ovunque, traffico permettendo. Ti fai una chiacchierata col tassista, un indiano che sta a New York da 8 anni e abita nei Queens. Dice di trovarsi bene, che New York è una città frenetica, una città di pazzi, ma che in fondo gli piace: guadagna e riesce a tirare avanti. Nel suo Paese sarebbe già morto di fame. Ti chiede di Roma, del tuo lavoro, di New York. Quasi ti spiace terminare la conversazione.
Il giorno successivo lo dedichi a Park Avenue. La strada più ricca della città. Strade piene di alberi, portieri che puliscono il marciapiede e aprono le porte a signore imbellettate che portano a spasso il cane e il portafogli. Arrivi alla Stazione Centrale e poi al Chrysler Building, a tuo parere il grattacielo più bello. Visiti la New York Public Library, 6 piani di godurie letterarie e non solo, la sede del New Yorker, prendi un espresso (molto buono) da Starbucks e ti siedi accanto ad una ragazza che studia, portatile sul tavolo e bicchiere in mano. A pranzo opti per l’unica cosa commestibile in città, la pizza, e riparti in direzione shopping: puoi comprare di tutto e a prezzi vantaggiosi. Magliette, cappelli, felpe e ogni genere di gadget possa venirti in mente, dai piatti agli adesivi. Prendi magliette, tazze, tazzine, presine, targhe, piattini, cartoline e il pakistano che gestisce la baracca passa subito all’italiano, ringraziandoti con un «Grazie, amico italiano!». Poi ti stringe la mano. Roba da matti. Non ti resta da vedere che Central Park, il West Side e il Greenwich Village. Decidi di sacrificare Wall Street e l’East Side per il prossimo viaggio.
Central Park è l’ancora di salvezza di New York. Tolto questo meraviglioso parco, che impieghi mezzo pomeriggio a percorrere, la città sarebbe perduta. Un’enorme oasi verde, con un lago, un campo di softball e scoiattoli che ti saltano quasi addosso mentre percorri i mille sentieri che regalano paesaggi suggestivi. Ponti di pietra e di legno, grotte, fitta vegetazione, per un attimo dimentichi di essere in una metropoli. Potresti essere in montagna, a fare una passeggiata.
Il West Side è un quartiere ricco di storia e cultura. Passi il museo di Storia Naturale, il Lincoln Center, l’Opera, anche se negli occhi hai ancora l’incanto di Central Park e della sua quiete innaturale, in mezzo all’infinito caos di clacson e sirene.
Il Village è come te lo immaginavi. Come lo hai visto in centinai di film. Un quartieri di pazzi e artisti, di gente senza talento, di studenti, di liberi pensatori e di stravaganti alla ricerca di attenzione. Vedi gli idranti sui marciapiedi, come nei film. Vedi il fumo che sale dai tombini (e puzza), come nei film. Vedi i predicatori che urlano in piazza, come nei film. Vedi i venditori ambulanti di Hot Dog, come nei film. Ci sono centinaia di locali nascosti nei seminterrati, dai nomi strani e/o inquietanti, con musica dal vivo e non. Circoli letterari, negozietti di antiquariato e abbigliamento usato. Librerie in grande quantità. C’è perfino la statua di Garibaldi nel bellissimo Washington Square Park, il cui arco appare sempre nelle sit-com e nei telefilm tipo Friends e Will & Grace.
Ci sarebbe ancora tanto, troppo da dire o da descrivere della Grande Mela. Ma è inutile tentare di farlo. Bisogna salire su un aereo, aspettare circa 9 ore, e scoprirlo da soli. Scoprire l’America, con le sue meraviglie e le sue meravigliose contraddizioni.
Con i suoi perché e le sue risposte, non sempre comprensibili.
New York è un piacere che vale la pena concedersi. Un vizio che fa bene alla salute.
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento