Chi ha paura di Diane Arbus?
L’avevano soprannominata ‘la fotografa dei mostri’. Ai suoi vernissage i visitatori spesso e volentieri sputavano, non metaforicamente, su quelle immagini che lei andava raccogliendo per le strade di New York, come una spazzina volenterosa, tra la fauna che tutt’oggi solitamente si aggira nei pressi delle stazioni, nelle pensioncine conficcate in vicoli senza uscita, nei ‘diurni’ con annesso barbiere. Il ‘corpus’ che Diane Arbus ci ha lasciato, come una specie di monito a noi che siamo rimasti in questa valle di lacrime, è un insistito florilegio di varia ed eventuale umanità. Travestiti e deformi la fanno da padrone. Il tutto fotografato per benino nello splendore del 6×6. Come dire: «Bevete e mangiatene tutti». Quello che si narra intorno alla sua figura è degno del «Forse non tutti sanno che…» della Settimana Enigmistica. Pare che alla fine degli anni Cinquanta ad esempio, sia rimasta colpita dalla visione di un film, Freaks di Tod Browning (del ’38), ambientato in un circo e interpretato da donne barbute, gemelle siamesi, uomini-torso (veri freaks) e che da allora, per più di dieci anni, abbia battuto i luoghi più insoliti della città proprio alla ricerca di queste persone. Oppure potrebbe avere ricevuto in gioventù una educazione un po’ troppo rigida e ovattata (i suoi, ricchi sfondati, erano proprietari di una celebre catena di negozi di pellicce).
Ma, per non fare della psicologia a buon mercato, tralasceremo questi aspetti che potrebbero essere anche tutto sommato marginali. Qui è il suo sguardo che ci interessa. Ed è uno sguardo sinceramente ingenuo, ma nel suo significato peggiore. E in più esso è uno sguardo atrocemente qualunquista perché non c’è riscatto, non c’è giustizia per nessuno. È come quando il dito indica la luna, con quel che segue. Tra tutte le contraddizioni dell’America di quegli anni, la Arbus sceglie di rivolgere il suo interesse su una specifica, troppo specifica porzione di umanità, qui sta la sua ingenuità, e lo fa nel modo più candido possibile, in un territorio dove il pensiero si ferma, dove il diritto di critica non si può esercitare per forza di cose (quale pensiero posso formulare su un travestito fotografato in un modo tale da renderlo ‘mostro’?). A differenza di August Sander, a cui viene spesso accostata, Diane Arbus non da alcun fastidio all’establishment della sua epoca che, al contrario, le apre le porte del Museum of Modern Art e le elargisce due borse di studio da parte della Fondazione Guggheneim: le sue immagini, a differenza del fotografo tedesco, non scalfiscono il pensiero dominante, non forniscono nessuna chiave di lettura, lasciano tutto così com’è. È puro esercizio di stile, venato di ambiguità e fraintendimento negli scopi. Oltre a fotografare la pazzia conclamata o le malformazioni, essa fotografa anche le casalinghe e le famiglie qualsiasi che fanno la passeggiata domenicale o gli anziani seduti a Central Park, come se fossero anch’essi pazzi. Li riprende in una maniera, in un modo dove si percepisce che c’è qualcosa che non va, anche lì dove non se ne sente il bisogno. La fotografia del bambino che gioca con una granata giocattolo, è rivelatrice del suo modus operandi, ma anche del suo particolare modo di vedere il mondo. Per lei il mondo è una gabbia di matti. Può anche darsi. Ma se non si riconoscono le cause, questa constatazione è perfettamente inutile. Una sua frase è veramente inquietante e indicativa al tempo stesso: «Io mi adatto alle cose malmesse. Intendo dire che non mi piace metter ordine alle cose. Se qualcosa non è a posto di fronte a me, io non la metto a posto. Mi metto a posto io.»
Traducendo l’Arbus-pensiero: se sto nella melma, non cerco di alzarmi e di ripulirmi, divento melma anch’io. Una teoria un po’ bislacca, ma pur sempre una teoria. Il mondo gira, la Storia è un susseguirsi di date, ognuno al suo posto e così via. E dire che qualcuno definisce l’opera della Arbus «una specie di sabotaggio del pensiero dominante». Da far cadere le braccia.
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