C’era una volta il collegio di Mondragone a Monte Porzio Catone
Sorto sui resti di una villa romana, l’edificio della Villa Mondragone intorno al 1570 fu residenza di papa Gregorio XIII, cui si deve l’adozione del calendario ‘gregoriano’ oggi in uso. Il nome deriva dallo stemma araldico del pontefice, un drago. Ospiti famosi soggiornarono in questo grande edificio situato nella verdeggiante natura di Monte Porzio Catone: tra loro, i papi Clemente VIII e Paolo V, e la scrittrice George Sand, che nel 1858 vi trovò ispirazione per uno dei suoi romanzi.
Come Villa del Cardinale a Rocca di Papa ebbe come anfitrione il cardinale Girolamo Colonna, Villa Mondragone conobbe fasti e splendori con il cardinale Scipione Borghese e fu il principe Marcantonio V Borghese che la donò ai gesuiti nel 1865. Successivamente vi venne inaugurato il collegio di Mondragone, un convitto per i figli delle classi sociali più elevate.
Fu nell’ottobre del 1949 che Giuseppe (classe 1939) fu iscritto in prima media: accompagnato dai suoi genitori e da uno zio varcò il cancello a bordo di una Lancia Artena. Varcato il grande portone, il ragazzo con i suoi familiari visitarono l’intero edificio accompagnati dai sacerdoti gesuiti. Vennero loro mostrate le cinque camerate, attrezzate ciascuna con 25-30 posti letto; per accedervi avevano attraversato lunghi corridoi con teche dov’erano esposti animali imbalsamati. Entrando, ricorda, era rimasto incantato dal ricco mosaico sul pavimento del Salone degli Svizzeri: proprio là era stato inaugurato il calendario gregoriano. Poco distante, l’ingresso della cappellina Mater Pietatis, protettrice del collegio, dove periodicamente gli studenti si impegnavano in esercizi spirituali che richiedevano, ricorda Giuseppe, infinita pazienza da parte loro. In fondo al salone, l’ingresso conduceva a un giardino pensile, ricco di piante esotiche: il neocollegiale rimase estasiato dal magnifico scorcio su Roma e, all’esterno della villa, dal grande parco con numerosi pavoni. Poco distante c’era la grande chiesa e, in un altro piazzale, una fontana del Bernini.
Giuseppe ricorda di aver avuto con sé un corredo etichettato con il suo numero di matricola: 125. Due le divise: da lavoro e della festa. La prima prevedeva pantaloni alla zuava di color grigio-beige, calzini a scacchi e scarpe basse marroni. Quella della festa era blu, pantaloni lunghi, giacca a doppio petto, cravatta e soprabito, calzature nere. All’interno del collegio, i convittori potevano usufruire dei servizi del calzolaio, sarto, barbiere, dentista, medico e infermieri.
La disciplina era ferrea. Sveglia alle 7:30, colazione in refettorio, inizio delle lezioni alle 8:20, pranzo alle 12:30, due ore di ricreazione e di nuovo studio. Alle 19:30 era servita la cena, seguiva un momento ricreativo e alle 20:30 si andava a letto. Il prefetto spegneva la luce dopo un quarto d’ora, lasciando accesa un’illuminazione notturna.
Molta cura si prestava all’igiene, con lavaggi spesso con acqua fredda e doccia ogni due giorni. In refettorio i convittori sedevano in tavoli da quattro posti; le pietanze venivano servite in fiamminghe poste al centro tavola. Ciascuno poteva servirsi a piacere, a patto che nulla fosse lasciato nel piatto. Una delle prime prove di corretto comportamento e rispetto del galateo passava proprio per il momento del pasto: inizialmente i ragazzi mangiavano con due libri sotto le braccia e uno sulla testa. La forchetta andava alla bocca e non viceversa e, ricorda il nostro Giuseppe, quanti libri scivolati nei piatti, le prime volte! La frutta veniva sbucciata con coltello e forchetta. Tutto questo divenne presto un’abitudine, così come i convittori impararono perfettamente la giusta tecnica del baciamano… con buona pace del Galateo di Monsignor della Casa.
I giorni di scuola scandivano ore di lettere, matematica, disegno, francese e lezioni di comportamento. Era possibile ricevere visite il giovedì e la domenica; e con i familiari si poteva anche uscire per una passeggiata e rientrare prima di cena. Tra le attività ricreative, nei giorni di festa, venivano proiettati film di prima visione nella sala cinematografica del Collegio.
A fine settimana a ciascun allievo veniva consegnato un biglietto che puntualizzava il rendimento e il profitto: quello bianco indicava un voto totalmente insufficiente; il rosso era segno di mediocrità; il verde stava a indicare l’eccellenza. Chi otteneva il cartoncino verde poteva andare a casa il sabato sera e tornare la domenica. Naturalmente se non si era in punizione. Come quella volta che Giuseppe prese le difese di un suo amico, esile, mingherlino, spesso preso di mira da un altro compagno sicuro e pieno di sé. Il prepotente così lo apostrofò per bloccarlo: «Non immischiarti, plebeo!». Ne seguì una lite che costrinse i due a una settimana di silenzio e per un mese furono annullati tutti i permessi dovuti al profitto. Per contro, Giuseppe ricorda, sorridendo, i baci e gli abbracci della principessa Gonzaga, gentilissima con lui e con la sua famiglia.
Sangue nobile scorreva tra alcuni dei suoi compagni d’avventura collegiale, rimasti tali anche nella vita; nomi come Orsini, Lante della Rovere, Ferrante, Gonzaga, Torlonia, Badoglio. Ma non era il tipo, Giuseppe, da lasciarsi intimorire: il tirocinio della vita nei vicoli del paese dov’era nato lo aveva ben forgiato nel fisico e nel temperamento.
Fu proprio la nostalgia del borgo e della sua famiglia che una volta lo spinse alla fuga. Rientrato malvolentieri dalle vacanze di Natale, invece di andare a messa prese un’uscita secondaria a Villa Vecchia, dove c’erano i contadini che lavoravano per Mondragone. In tasca non gli mancavano gli spiccioli: prese il tram, giunse alla fermata della funicolare e tornò a casa. Non fece in tempo a entrare che due persone lo fermarono; i familiari stessi non gli fecero varcare la soglia. Accompagnato in taxi da un’anziana zia, rientrò a Mondragone. Preparata e colta, fu la zia a parlare con il rettore, padre Alessandro dei Giudici Albergotti S.J. Questi la rassicurò, la fece accompagnare al cancello e chiese al ragazzo se avesse pranzato. Alla sua risposta negativa, lo invitò a pranzare con lui, parlandogli con calma e tranquillità.
Quel colpo di testa non ebbe, come Giuseppe aveva temuto, alcuna ripercussione. La vita di sempre riprese, fino a quando, nel 1953, il collegio Mondragone chiuse i battenti, lasciando interdetti e dispiaciuti quanti ormai vi si erano bene inseriti. Giuseppe, che non aveva terminato il liceo, dovette allora fare altre scelte. Ma questa è un’altra storia.
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