Cenere e patate
Se non fosse che, passando nell’unica antica via carreggiabile del paese, costellata da qualche bar, con crocchi sempre più fitti di anziani e giovani, in cerca di lavoro o a riposarsi per quel che hanno fatto, di sempre più rapide spese e approvvigionamenti invernali per le belle giornate che permangono, di certi mugugni e fronti aggrottate, di donne coraggiose a spingere passeggini e bambini a scuola, di anziane su e giù con il carretto che si confidano pene ed acciacchi… potrebbe apparire un fine settembre comune. Una vendemmia andata bene come la raccolta delle “nocchie”, con l’odore della legna bruciata, con un ottobre che incalza e invita a fare presto: il cambio di stagione. Cambiare cosa? Cambiare abitudini, perché fa molto male guardare la televisione, ad esempio. Ci dice di consumare, fossero pure donne e motori, diventare uomini forti e bambini intelligenti, giovani emergenti come i loro tutori, ci dice che il mondo delle Borse va male ma magari domani è un altro giorno e risale e alla gente comune non sembra importare un gran che, questo sali e scendi, come la moneta europea e il petrolio: le notizie sono ormai seriali, di guerre e vittorie di Pirro, di feste senza Liberazione, di drammi con Feste, di ministri e minestre, di capi e gregari, di cuochi a revisionare e scandire emergenze. Non ce l’aveva detto affatto, la signora Informazione, che la Crisi sarebbe arrivata e così presto. È da anni che i media mostrano al mondo un’Italia dove si mangia, si beve e si consuma, dove c’è posto per tutte e tutti se vogliono assaggiarci, dove la sappiamo lunga e la sappiamo dire e fare, dove ci siamo risollevati sempre, magari con l’arte dell’arrangiamento, dove si dice grazie anche se nessuno risponde prego ma anzi incalza con il conto. Ci raccontano da decenni che siamo una Repubblica democratica, fondata sul lavoro, che il popolo è sovrano, solidale politicamente, economicamente e socialmente, che non ci sono in Italia distinzioni di sesso-razza-lingua-religione-opinioni politiche-condizioni personali e sociali, che possiamo sceglierci l’attività che più ci aggrada, che le minoranze linguistiche sono tutelate, che lo Stato e la Chiesa sono indipendenti e non vanno a braccetto, che da noi si può essere religiosi nella maniera che pare, che viene promossa la cultura e la ricerca scientifica e tecnica, che viene tutelato il paesaggio e il patrimonio artistico, che gli stranieri hanno diritto d’asilo e non possono essere estradati per reati politici, che l’Italia ripudia la guerra che non è un mezzo per risolvere le controversie internazionali…Ci hanno detto che la bandiera della Repubblica è il tricolore: verde, bianco e rosso, a tre bande verticali di eguali dimensioni. Ce lo fanno vedere spesso il tricolore: risolve sbrigativamente molti diritti di cui sopra e poi l’onore è salvo. L’allegra compagnia riprende sempre a volare e spazza i brutti pensieri, come le malelingue sul nostro Paese, che viene imitato, un marchio contraffatto a Bengodere di quello che rimane, fosse pure contraffatto, con passione purezza e speranza, l’ultima a morire: questa invece, ce l’avevano detta.
Nessuno ci dirà invece che saremo poveri ma belli, perché ancora crediamo nella libertà e nella vita, fatta di condivisione senza agrodolci fini, a sbandierare solo la volontà di rimanere con i piedi per terra, senza voli e svolazzi di diritti, scritti su una Carta, da tempo bruciata e calpestata, fatta cenere, buona a coprire certe patate.
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