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Ce ne ricorderemo di questo spettacolo

Marzo 19
00:00 2012

Presentato in anteprima il 22 febbraio al Teatro Parioli, Il giorno della civetta riporta all’attenzione del pubblico un autore, Leonardo Sciascia, un po’ trascurato negli ultimi anni, dopo aver occupato, negli anni ’70, un posto di rilievo nella letteratura contemporanea e nel canone scolastico, certamente per le tematiche civili e politiche, centrali nella sua riflessione, e forse anche per la sua provenienza dal mondo della scuola. Fatto, questo, che farebbe temere la sua relegazione in una posizione di secondo piano, considerata la sufficienza con cui si guarda a tutto quanto proveniente dalla scuola. Vi si aggiunga poi la ‘sicilianità’ dell’autore, e non ci vorrebbe molto a decretare il suo sprofondamento in un canone localistico, primo passo verso l’oblio.

Ben venga perciò uno spettacolo che, in tempi eticamente piuttosto ‘confusi’, ci fa riascoltare la voce dell’impegno e della chiarezza nella lotta contro la mafia, paradigma di ogni fattore di corruzione nel corpo sociale. Il romanzo, pubblicato da Einaudi nel 1961, prendeva spunto dall’omicidio di un sindacalista, e attrasse subito l’attenzione del cinema, dando vita all’omonimo film di Damiano Damiani nel 1968. La storia, ben congegnata nella sua essenzialità, vede il protagonista parmense, capitano Bellodi (che nei suoi tratti di rigore e tenacia adombra il Generale Dalla Chiesa), impegnato nell’indagine sull’omicidio di un imprenditore edile, reo di non aver ceduto ad imposizioni di mafia. Omicidio che, consumato nella consueta omertà, innesca una catena di altri delitti, a cominciare da quello di cui resta vittima in ignaro testimone, Nicolosi, colpevole di aver riconosciuto nel sicario un suo compaesano, Zecchinetta. Sarà proprio la vedova di Nicolosi, Rosa, disperata per la scomparsa del marito, a violare il codice del silenzio rivolgendosi ai Carabinieri, e a fornire a Bellodi il bandolo per dipanare la ‘matassa’. Anzi, la catena di delitti, cui simmetricamente corrisponde una catena di poteri e responsabilità che dalla ‘manovalanza’ conduce al padrino locale, Don Mariano Arena (un asciutto Orso Maria Guerrini), fino ad arrivare al corrotto politico di turno, Onorevole Livigni (Gaetano Aronica, che ha anche curato l’ottimo adattamento teatrale). Vanificata l’azione della giustizia con gli opportuni interventi del politico, proprio quando sembrava che nessuno potesse più sfuggire alle proprie responsabilità, al capitano viene elargita una bella licenza premio, preludio ad una opportuna promozione con relativo trasferimento. Al di là dell’idealismo un po’ rigido di Bellodi (nell’interpretazione di Sebastiano Somma) e della troppo dolente e remissiva femminilità di Morgana Forcella nel ruolo di Rosa Nicolosi (ma il ritratto qui soffre del controluce con la dirompente Cardinale della versione cinematografica), lo spettacolo vive naturalmente dei dialoghi. Dal ‘ragionare’ letterarizzato (tra gli inevitabili poli della pirandelliana forma-sostanza e del gattopardesco agire) del capitano, impartito al docile maresciallo Di Natale; passando per la logica pragmatica del “…ma perché non fanno un partito? Sbirri, giudici, sindacalisti. Così perdono le elezioni e se ne vanno aff..”; fino alla antropologia superomistica di Don Mariano (la celebre scala discendente, dagli uomini, quelli ‘d’onore’ ovviamente, fino ai quaquaraquà). E’così che la semantica dei fatti si fa semantica del testo, e la Sicilia, il cui “più grande peccato è non credere nelle idee, nella forza delle idee”, diventa paradigma di una corruzione che, seguendo la “linea della palma”, si avvia a fagocitare ogni spazio di civile convivenza: “Forse tutta l’Italia va diventando Sicilia… A me è venuta una fantasia, leggendo sui giornali gli scandali di quel governo regionale: gli scienziati dicono che la linea della palma, cioè il clima che è propizio alla vegetazione della palma, viene su, verso il nord, di cinquecento metri, mi pare, ogni anno… La linea della palma… Io invece dico: la linea del caffè ristretto, del caffè concentrato… E sale come l’ago di mercurio di un termometro, questa linea della palma, del caffè forte, degli scandali: su su per l’Italia, ed è già, oltre Roma… »; “Quando dicevo che questa è la Sicilia sbagliavo, questo è il mondo”.

Dall’apertura, sulla luce pulsante di un battito cardiaco interrotto da uno sparo, mentre sullo sfondo, oltre una grata, due uomini si incontrano e stringono la mano in un patto assassino, la regia sobria di Fabrizio Catalano conduce lo spettatore in medias res in una scena articolata in dentro/fuori, sopra/sotto. Resta al pubblico orientarsi in queste porzioni di spazio parcellizzato, dove l’etica personale guida. Leggendo forse nelle presenze in sala, dal Ministro degli Interni, signora Cancellieri, ad altre alte cariche dello Stato e della Rai, la semiologia di uno Stato che nella lotta contro la mafia vuole esserci. E ci scusiamo se, titolando, abbiamo parafrasato l’epitaffio “Ce ne ricorderemo di questo pianeta”, che Sciascia (citando Villiers de l’Isle-Adam) volle sulla tomba, lui che, con costante testimonianza di impegno civile e politico, aveva dimostrato che “una certa attenzione questa terra, questa vita, la meritano”.

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