Caso Gugliotta e la realtà degli abusi da parte delle forze dell’ordine
Il Gruppo EveryOne chiede alle Istituzioni di attuare procedure opportune per debellare questo preoccupante fenomeno e ai giudici di non favorire con sentenze superficiali l’impunità degli agenti violenti o mendaci
Roma, 13 maggio 2010. Il 5 maggio scorso, dopo la finale di Coppa Italia a Roma, il giovane Stefano Gugliotta è caduto nelle mani di un agente indegno ed è stato maltrattato, percosso, arrestato, accusato di reati da lui non commessi, incarcerato e detenuto senza ragione per un’interminabile settimana. Da ieri è tornato in libertà, ma non dimenticherà mai e forse non supererà mai le iniquità e le violenze subite. “Giustizia è stata fatta,” commentano gli amici del ragazzo, ma Stefano deve solo al caso – nei panni di Alfredo, il cittadino che ha avuto la prontezza di spirito di riprendere l’aggressione con il videofonino – la sua ritrovata libertà e la ragionevole speranza che presto ogni accusa a suo carico, anche quella di “resistenza a pubblico ufficiale” possa cadere. “Alfredo, la persona che ha effettuato il video nel quale si vedono le fasi dell’arresto e il pugno sferrato da un agente, è stato il mio angelo,” ha dichiarato Stefano ai giornalisti che lo intervistavano. Grazie al video, rappresentanti del Commissariato Prati e della Questura di Roma hanno ammesso – non senza imbarazzo – l’abuso di potere e presentato le scuse alla famiglia Gugliotta. Pare che lo steso agente violento abbia confessato la sua colpa. Purtroppo, però, non vi sono sempre “angeli” come Alfredo in giro per le città e il fenomeno delle violenze gratuite commesse da uomini in divisa è diffuso. Secondo la nostra esperienza, che si basa su centinaia di segnalazioni e testimonianze, almeno l’80% dei casi in cui agenti di polizia denunciano un cittadino per “resistenza” od “oltraggio” a pubblico ufficiale nasconde in realtà un abuso di potere, i cui responsabili, per evitare di incorrere in denunce e per un sadico sentimento di arrogante superiorità, capovolgono la realtà dei fatti. In tal modo, essi pongono la vittima delle violenze nella condizione di non potersi difendere, avendo subito, in genere, gli abusi trovandosi da sola o al massimo in compagnia di una sola persona. Gli agenti, al contrario, non operano mai da soli e hanno l’abitudine di coprirsi a vicenda per un malcompreso “spirito di corpo” che è in realtà una devianza. E si sa, la parola di due agenti contro quella di un privato cittadino, in molti casi assai giovane o in condizioni di emarginazione sociale, prevale sempre, di fronte a un giudice. Quando noi operatori umanitari ci troviamo di fronte a episodi simili a quello che ha colpito Stefano Gugliotta, chiediamo sempre che la vittima sia visitata da un medico che possa attestare l’aggressione “da mano altrui”. Quindi raccogliamo testimonianze, se possibile (di solito, però, i cittadini che assistono ad abusi polizieschi hanno poi paura di testimoniarli). Infine, inviamo un dossier al legale che difende la vittima e, se riusciamo a identificarlo in tempo, al magistrato. In alcuni casi abbiamo seguito la vittima nell’azione di denuncia contro gli agenti violenti, incontrando sempre resistenza da parte dei funzionari di forza pubblica ad accogliere tali atti.
Il Gruppo EveryOne pone attualmente in primo piano la necessità di sensibilizzare le Istituzioni e i media riguardo alla triste realtà degli agenti violenti, che oltre a produrre danni fisici sospingono persone innocenti e vulnerabili in un vero e proprio buco nero giudiziario, la cui appendice terminale è una magistratura cieca di fronte al problema e solidale acriticamente con le forze dell’ordine. Alcuni dei nostri attivisti possono testimoniare cosa significhi la persecuzione poliziesca. Durante un anno e mezzo di permanenza a Pesaro, infatti, i co-presidenti di EveryOne Roberto Malini e Dario Picciau, nonché altri operatori umanitari attivi nella stessa organizzazione per i Diritti Umani, hanno incontrato l’ostilità del Questore e di alcuni dirigenti della Polizia di Stato (atteggiamento oggetto di alcune interrogazioni parlamentari). Il capoluogo marchigiano, purtroppo, era (ed è tuttora, anche se in misura minore) in preda a un’ondata di intolleranza irrazionale e senza limiti nei confronti di alcune famiglie Rom romene che si erano rifugiate da qualche mese in città. “I Rom sono notoriamente criminali,” ci aveva ammoniti il Questore dopo averci convocati nel suo ufficio, “dunque voi attivisti fate parte di un’associazione per delinquere e come tali vi commino un avviso orale”. Da quel momento siamo stati oggetto di continui controlli e di atteggiamenti assai pressanti da parte di uomini in divisa, atteggiamenti che raggiungevano la provocazione e la minaccia nel corso degli sgomberi di insediamenti Rom, cui presenziavamo per apportare sostegno umanitario. Grazie a una lettera di incarico da parte dell’onorevole Viktoria Mohacsi, europarlamentare di etnia Rom, l’atteggiamento è divenuto meno rigido e alcuni agenti di polizia hanno cercato di comunicare con noi, chiedendoci informazioni sul popolo Rom e sulla loro realtà fatta di povertà ed emarginazione. Tuttavia, per un anno e mezzo, i nostri attivisti sono stati costretti a non spostarsi mai da soli per la città o comunque a tenersi in contatto telefonico durante ogni incontro con agenti della Polizia di Stato, oltre che ad evitare i luoghi solitari. Nonostante ciò, nel dicembre del 2008 due agenti di polizia, nel corso di un controllo “sui generis” nei confronti di tre ragazzi Rom (uno degli agenti si trovava in realtà in auto e aspettava un panino e una bibita davanti a un bar), vedendoci avvicinare ci chiedevano i documenti. Uno di loro teneva un atteggiamento provocatorio nei nostri confronti, senza ottenere alcuna reazione da parte nostra, che abbiamo una lunga esperienza nel trattare con le forze dell’ordine. Nonostante ciò, successivamente ci querelava per ingiurie (inventate di sana pianta) e otteneva dal magistrato un decreto penale di condanna nei nostri confronti, decreto che sollevava le proteste di FrontLine (la principale organizzazione internazionale che tutela gli attivisti) ed era oggetto di due interrogazioni parlamentari europee. Abbiamo presentato opposizione verso quel provvedimento ingiusto. Anche noi forniremo al giudice un video con la testimonianza di uno dei tre giovani Rom, che smentisce le parole degli agenti. Ci auguriamo che l’ingiusta condanna venga rivalutata dal magistrato, altrimenti ricorreremo in ogni grado e presso la Corte europea dei Diritti Umani. Anche nel caso che venga fatta giustizia subito, però, bisogna considerare che il giudice potrà esaminare – anche nel nostro caso – una videoripresa, documento di cui nel 99,9% dei casi le vittime di abusi polizieschi non dispongono.
Per porre un limite ai pericoli che tanti cittadini innocenti corrono, trovandosi di fronte ad agenti violenti e senza scrupoli, è necessario attuare misure importanti. Innanzitutto, sarebbe opportuno installare telecamere orientabili sulle auto della forza pubblica, in modo che i controlli e le azioni di polizia siano ripresi. La sola prova che i giudici dovrebbero poi considerare valida nei procedimenti è proprio la videoripresa, mentre la parola di un agente e il sostegno testimoniale del suo collega e amico – a lui legato da “spirito di corpo” – non dovrebbero avere alcun valore se non indiziario. Contemporaneamente, sarebbe ora di avviare campagne di educazione ai Diritti Umani rivolte alle forze dell’ordine e campagne di aggiornamento sulla realtà degli abusi polizieschi e sui metodi per rivelarli nei procedimenti giudiziari destinate ai magistrati. Il nostro Gruppo e le altre organizzazioni per i Diritti Umani con elevata competenza in questo delicato settore potrebbero scegliere e organizzare i contenuti di tali campagne di informazione corretta.
Altrettanto importante è l’istituzione di un organismo efficiente che coinvolga la società civile per offrire una tutela effettiva agli attivisti, ai cittadini e soprattutto alle minoranze emarginate contro gli abusi delle forze dell’ordine. Non è da trascurare, inoltre, l’opportunità di riesaminare le migliaia di casi di resistenza e oltraggio nei confronti di pubblico ufficiale, opportunità finalizzata sia a cancellare tanti abusi giudiziari quanto a scoraggiare gli agenti violenti e quelli mendaci da azioni persecutorie nei confronti di cittadini inermi. Nel contempo è importante, infine, ridefinire giuridicamente i reati di resistenza e oltraggio, che dovrebbero ragionevolmente essere rari, data la sproporzione di potere fra agenti in uniforme e cittadini indifesi, ma che – al contrario e in modo sospetto – sono assai diffusi e in continuo aumento e vengono condannati – spesso in buona fede, ma con troppa superficialità – dai giudici solo in base alla parola degli agenti stessi.
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