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“Caro Occidente smetti di salvare l’Africa”

Luglio 31
23:00 2007

L’accusa di uno scrittore americano-nigeriano che vive tra Lagos e gli Usa Nel mirino star, ong e mobilitazioni studentesche: “Basta umanitarismo sexy” L’autunno scorso, poco dopo il mio ritorno dalla Nigeria, mi sono sentito chiamare da una disinvolta studentessa, una bionda che portava intorno alla vita un filo di perle africane intonate ai suoi occhi azzurri. “Salviamo il Darfur!” gridava la ragazza da dietro un tavolo coperto di opuscoli che esortavano gli studenti a mobilitarsi subito: “Take Action Now! Stop Genocide In Darfur!”. Data la mia avversione per la facilità con cui gli studenti dei college si imbarcano nelle cause più in voga, stavo passando oltre; ma la ragazza mi ha bloccato gridando: “Non vuole aiutarci a salvare l’Africa?”. A quanto pare, in questi ultimi tempi l’Occidente, oppresso dai sensi di colpa per la crisi che ha creato in Medio Oriente, si rivolge all’Africa per redimersi. Studenti idealisti, celebrità come Bob Geldof e politici come Tony Blair si sentono investiti della missione di portare la luce nel Continente Nero. E atterrano qui per partecipare a seminari e programmi di ricerca, o per raccogliere bambini da adottare – un po’ come i miei amici di New York quando prendono la metropolitana per andare al canile municipale a cercare un randagio da portarsi a casa. Questa la nuova immagine che l’Occidente dà di se stesso: una generazione sexy e politicamente attiva, che per diffondere il verbo privilegia i paginoni dei rotocalchi con in primo piano la foto di qualche celebrità, su uno sfondo di africani stremati. E non importa se a volte le star impegnate nei soccorsi hanno volti emaciati – sia pure volontariamente – quanto quelli degli affamati che vogliono soccorrere. L’aspetto più interessante è forse il linguaggio usato per descrivere quest’Africa da salvare. Ad esempio, la campagna pubblicitaria di “Keep a Child Alive” (“Mantieni in vita un bambino”), che ha scelto lo slogan “Io sono africano”, presenta le foto di celebrità occidentali, per lo più di pelle bianca, con la faccia dipinta di “segni tribali”, sotto la scritta “I am African” in lettere cubitali; e in basso, in caratteri più piccoli: “Aiutaci a fermare la strage”. Ma per quanto benintenzionate, le campagne di questo genere promuovono lo stereotipo dell’Africa come una sorta di buco nero di malattia e di morte. Le notizie di stampa si concentrano invariabilmente sui leader corrotti del continente, sui signori della guerra, sui conflitti “tribali”, sul lavoro minorile e sulle donne sfigurate da abusi e mutilazioni genitali. Per di più, queste descrizioni sono spesso precedute da titoli del tipo: “Riuscirà Bono a salvare l’Africa?” Oppure: “Brangelina salverà l’Africa?” Anche se i rapporti tra l’Occidente e il continente africano non sono più apertamente basati su idee razziste, questi articoli hanno molto in comune con i resoconti dei tempi d’oro del colonialismo, quando i missionari europei venivano inviati in Africa per portarci l’istruzione, Gesù Cristo e la “civiltà”. Non c’è un solo africano che come me non apprezzi gli aiuti provenienti dal resto del mondo. Ma ci chiediamo fino a che punto quest’aiuto sia genuino, o se non venga dato nello spirito dell’affermazione di una superiorità culturale. Mi sento avvilito quando prendo parte a manifestazioni di solidarietà ove il conduttore recita l’intera litania dei disastri africani, prima di presentare qualche personaggio, per lo più bianco e facoltoso, che elenca le sue iniziative in favore dei poveri africani affamati. Vorrei sparire ogni volta che sento uno studente benintenzionato descrivere le danze dei villaggi come segno di gratitudine delle popolazioni per i soccorsi ricevuti. O quando un regista di Hollywood gira l’ennesimo film sull’Africa con un occidentale nel ruolo di protagonista – mentre noi africani, che pure siamo esseri umani in carne ed ossa, veniamo usati al servizio delle fantasie proiettate dall’Occidente su se stesso. Queste descrizioni, oltre a passare sotto silenzio il ruolo preminente del mondo occidentale in molte delle situazioni più disastrose del continente, ignorano il lavoro incredibile che gli africani hanno compiuto e continuano a compiere per risolvere i loro problemi. Perché i media parlano spesso dell’indipendenza “concessa agli Stati dell’Africa dai dominatori coloniali”, dimenticando le lotte e il sangue sparso dagli africani per conquistarla? Come mai l’impegno per l’Africa di Bono o Angelina Jolie sono oggetto di smisurate attenzioni, mentre l’opera di africani come Nwankwo Kanu o Dikembe Mutombo è praticamente ignorata? E come si spiega che in Sudan le esibizioni da cow boy di un diplomatico Usa di medio livello ricevano più attenzione degli sforzi di numerosi Paesi dell’Unione africana, che hanno inviato aiuti alimentari e truppe, e si sono impegnati in negoziati estenuanti nel tentativo di raggiungere un accordo tra le parti coinvolte in questa crisi? Due anni fa ho lavorato in Nigeria in un campo di accoglienza per profughi interni, sopravvissuti a una rivolta che ha causato un migliaio di morti e circa 200.000 rifugiati. I media occidentali, fedeli alla solita formula, hanno riportato le notizie delle violenze, ignorando però gli interventi umanitari in favore dei superstiti da parte dello Stato e dei governi locali, che non hanno potuto contare su molti aiuti internazionali. In molti casi gli assistenti sociali hanno speso, oltre al loro tempo, anche una parte del loro salario per soccorrere i connazionali in difficoltà. Questa è la gente che lavora per la salvezza dell’Africa, come tanti altri in tutto il continente, senza alcun riconoscimento per il loro impegno. Il mese scorso, il Vertice degli 8 Paesi industrializzati si è incontrato in Germania con un gruppo di celebrità per discutere, tra l’altro, su come salvare l’Africa. Io mi auguro che prima del prossimo incontro di quest’organizzazione ci si renda conto di una cosa: l’Africa non vuol essere salvata. Ciò che l’Africa chiede al mondo è il riconoscimento della sua capacità di avviare una crescita senza precedenti, sulla base di un vero e leale partenariato con gli altri membri della comunità globale. (© 2007, Uzodinma Iweala. Traduzione di Elisabetta Horvat) (31 luglio 2007) www.repubblica.it/iweala

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