Bruschetta e panzanella
Continuiamo la nostra presentazione della cucina regionale del Lazio con due piatti intramontabili che troppo spesso vengono confusi, nel bene e nel male l’uno con l’altro.
La bruschetta può essere considerata la reginetta della cucina “povera” romana anche se oggi non è più così.
Il Belli non la cita mai nei suoi sonetti, ma lo fanno altri cantori romaneschi come Augusto Jandolo:
“Sgargarozzone vecchio e impenitente
che vai cercanno sempre piatti novi,
sgargarozzone vecchio che nun trovi
quello che cerchi e nun te piace gnente,
pia na’ fetta de pane campagnolo
e mettela sur foco.
Quanno s’è fatta d’oro e abbruscatella
strofinece un pò d’ajo, poco poco,
poi intignela du vorte dentr’all’ojo.
Cusi odorosa, unta e scrocchierella
me dirai se quer pane nero e tosto
nun è gustoso e tenero
mejo d’un pollo arrosto.”
Anche Ada Boni (La cucina romana, Newton Compton) la elogia dicendo che “non è infrequente il caso che gaie comitive di nottambuli, uomini e donne, penetrino in qualche ritrovo alla buona per gustare questa famosa bruschetta”, pur tuttavia aggiunge la Boni “votandosi volontariamente a tutte le conseguenze… che possono riassumersi in un grande bruciore di bocca ed evidentissime tracce non troppo profumate nell’alito”.
Per quanto riguarda la ricetta è fin troppo semplice, nonostante le numerose varianti che oggi vengono proposte in ristoranti e pizzerie; malgrado questo, in essa la qualità del fuoco gioca un ruolo particolare per raggiungere risultati ottimali.
Si mettono al fuoco non violento una o più fette di pane casareccio, tagliate a metà e si tolgono non appena si sono ben dorate senza bruciacchiarsi. Si collocano poi su un piatto piano e largo e si strofinano a caldo con uno spicchio d’aglio, un pò di sale e infine l’olio extravergine di oliva fatto scendere lentamente, in modo da penetrare bene nel tessuto poroso del pane.
“Certo non spunteranno fiori in bocca” scriveva Aldo Fabrizi negli anni ’80, rifacendo il verso ad una pubblicità dell’epoca, “ma l’alito profuma de salute” e ancora ”l’ajo è contro l’infezione, l’ojo per chi va duro è un toccasana”.
Fin qui la bruschetta.
La panzanella, al contrario della bruschetta, non può essere considerata un antipasto bensì uno spuntino, un fuori pasto che passata la “cecagna” o fatto “er pisolino, verso le 4, le 5 te ripija voja de magna”.
Cosa serve per preparala?
Fette di pane casareccio, non appena sfornato, ma neanche raffermo. A metà strada. Una volta bagnate le fette, premerle appena con le dita in modo da renderle adatte ad accogliere sale, pezzi di pomodoro fresco, le foglioline di basilico, l’olio bono.
Secondo la Boni, la panzanella, impiegata pure per la merenda dei bambini, “nella più semplice espressione è costituita da pezzi di pane bagnati un momento nell’acqua e spremuti, conditi poi con olio, aceto, un pochino di sale e del prezzemolo o del basilico o anche della persa o dell’erba pepe (satureja)”.
Sempre Fabrizi ci parla della panzanella in un suo sonetto dove aggiunge, per gusto suo, il pepe.
“E che ce vo’ pe’ fa la panzanella?
Nun è che er condimento sia un segreto,
oppure è stabilito da un decreto,
però la qualità dev’esse quella.
In primise: acqua fresca de cannella,
in secondise: ojo d’uliveto,
e come terzo: quer di-vino aceto
che fa’ veni la febbre magnarella.
Pagnotta paesana un pò intostata,
cotta all’antica, co’ la crosta scura;
bagnata fino a che nun s’è ammollata.
In più, per un boccone da signori,
abbasta rifini la svojatura
co’ basilico, pepe e pommidori.
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento