Bracciali d’oro e carceri di piombo
Era il 2001, al governo di un’Italia già gravata da una pesante crisi economica sedeva il prof. Giuliano Amato, alla guida di un governo di centro-sinistra. Su tutti i giornali scoppiò una polemica virulenta per un’iniziativa dell’allora Ministro dell’Interno Enzo Bianco il quale, affiancato dall’allora Ministro della Giustizia Piero Fassino, decise di introdurre nell’amministrazione carceraria l’uso del braccialetto elettronico per il controllo a distanza dei detenuti. Si parlò di “incubo futuribile” che rimandava ai fantascientifici microchip inseriti sottopelle per meglio controllare i criminali, si parlò di violazione della privacy, di “grande fratello“, e via così inanellando una serie di idiozie per contrastare quello che era solo un tentativo di razionalizzare il già allora esplosivo caos delle nostre carceri. Il braccialetto, già sperimentato con ottimi esiti in molti paesi, quali Gran Bretagna, Svezia, Spagna, Portogallo, Svizzera, Francia e Stati Uniti, concentrava in 45 grammi alti contenuti tecnologici che avrebbero consentito, se usato su larga scala, di decongestionare in parte le sovraffollate carceri italiane. Il governo Amato decise di sperimentare questa tecnologia, e stipulò un contratto con cinque aziende fornitrici per mettere a disposizione dei giudici di cinque diverse città una dotazione iniziale di braccialetti. Ma, dopo alcuni clamorosi fallimenti che consentirono la fuga di Cesar Augusto Albirena, un peruviano condannato per traffico di droga, e di Antonio De Luca, un killer ricoverato all’ospedale Sacco di Milano, per qualche tempo l’idea del braccialetto fu accantonata in attesa di futuri miglioramenti del sistema.
Passano gli anni e i governi. Nel 2003 il nuovo Ministro dell’Interno del governo di centro-destra, Giuseppe Pisanu, decise di riprendere la sperimentazione su larga scala, con il meritorio intento di diminuire il ricorso alla detenzione preventiva in attesa di processo, scatenando però nuove polemiche e nuove invettive. Il governo affidò a Telecom la gestione esclusiva su tutto il territorio nazionale di 400 braccialetti, con affidamento diretto senza gara d’appalto. Costo complessivo per l’istallazione e l’assistenza tecnica: undici milioni di euro all’anno per dieci anni. Totale: centodieci milioni di euro. Per far fronte alla prevista mole di lavoro, la Telecom approntò una grande centrale di controllo dei collegamenti su tutto il territorio nazionale, in contatto 24 ore al giorno con tutte le questure d’Italia. Un notevole impegno tecnico e finanziario che avrebbe garantito nel tempo un ottimale funzionamento del sistema d’allarme.
Ma dei braccialetti elettronici non si sentì più parlare per molti anni, fino a quando nel 2008 il nuovo Ministro della Giustizia Angelino Alfano, sempre per far fronte all’ormai intollerabile sovraffollamento delle carceri, decise di rilanciarne l’uso, con l’obiettivo di tenere sotto controllo i circa 4.100 detenuti italiani che, avendo fino a due anni di pena da scontare, avrebbero potuto usufruire degli arresti domiciliari. Nel suo piano “svuota carceri” era infatti previsto l’uso del braccialetto per quattromila detenuti, la cui dismissione dalle carceri avrebbe dato un po’ di fiato a istituti penitenziari ormai al collasso. E così arriviamo ad oggi. Ebbene, in una recente denuncia del Sindacato Autonomo di Polizia Penitenziaria si afferma che: «Dei 400 dispositivi elettronici noleggiati dal Viminale, solo 11 sono utilizzati. Gli altri sarebbero sotto chiave in una stanza blindata del Ministero». E non vi è stata smentita.
Ecco, la fine della storia è questa: lo Stato italiano ha pagato centodieci milioni di euro per l’uso di 11 braccialetti elettronici, al prezzo di dieci milioni di euro l’uno. Il contratto scadrà alla fine di quest’anno. La domanda è semplice: perche? Perché buttare centodieci milioni di euro in un paese in cui si suicidano in carcere decine di uomini ridotti alla disperazione da condizioni di vita sub-umane, un paese in cui il Presidente della Repubblica ha lanciato un alto monito indicando nell’indegno trattamento riservato ai carcerati a causa del sovraffollamento delle carceri un problema «di prepotente urgenza sul piano costituzionale e civile», definendolo «una realtà che ci umilia in Europa» e ammonendo che «l’abisso che separa la realtà carceraria dal dettato costituzionale sulla funzione riabilitativa della pena, e sui diritti e la dignità della persona, è una realtà non giustificabile in nome della sicurezza che ne viene più insidiata che garantita».
Cosa si sarebbe potuto fare per garantire due pasti al giorno a degli esseri umani che sono ad oggi alimentati con una spesa giornaliera di tre euro a testa, che non garantirebbe neppure il fieno per le vacche? Cosa si sarebbe potuto fare con quei centodieci milioni di euro per migliorare la vita di persone costrette a vivere in condizioni di spazio che la Comunità Europea considera invivibili per i maiali, a cui viene garantito nelle porcilaie uno spazio minimo di sei metri quadrati? Cosa si sarebbe potuto fare con quei centodieci milioni di euro per rendere a degli esseri umani quel minimo di dignità che la legge, ma ancor prima la coscienza di tutti, dovrebbe assicurare loro?
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