Botero il colore e la forma per un artista unico
L’approccio alla mostra è distratto e svagato. Dell’artista Fernando Botero (1932-2023) in molti abbiamo un’immagine da cartolina. I colori saturi, le forme morbide e piene di vita, possono bastare a farne il proprio pittore preferito? e poi: dichiara più volte di aver studiato la pittura rinascimentale italiana, ma dove dovremmo riscontrarlo, visti i blocchi di colore senza pennellate visibili e la fissità dei personaggi? Lo sguardo è critico di primo acchito anche se la mostra a Palazzo Bonaparte accoglie il visitatore con un filmato dedicato all’artista che si muove nel suo studio, abitato come fosse una casa, ed anche nelle foto distribuite nelle sale lo vedremo spesso a studio nelle varie età della vita, sempre pronto ad imparare, ad approfondire la pittura antica che diceva sembrargli un’arte inarrivabile…Eppure. Guardando le composizioni a blocchi di colore, donne, uomini, coppie, i quadri di Botero non hanno niente di lezioso, di ‘carino’ ed è qui che risiede, forse, la sua arte: l’osservazione continua di quella pittura rinascimentale ha lasciato in eredità al maestro colombiano proprio i blocchi di colore che esprimono l’umano dentro un panorama più ampio, di solito uno sfondo denso, d’un unico colore, solo la rotondità a dare peso alle forme perché per il resto la logica dei quadri risulterebbe schiacciata e senza prospettiva: donne piccoline e uomini enormi o il contrario (e gli omini sono sempre più belli e sereni delle donne, queste, invece, un poco altere, corrucciate, o coi profili imperfetti).
La perfezione arriva con la coppia, disposta in armonia sulle tele enormi e, osservando meglio, l’impressione iniziale di inespressività cambia: quei protagonisti delle grandi tele sono alteri e guardano lo spettatore che li guarda, o guardano avanti, nella storia, fondale superbo che li contiene e li pervade, come nelle tele sui magnifici prelati. Stessa cosa per la serie dei vasi fioriti. I vasi stanno sugli sfondi, non c’è nulla che possa urtare la loro bellezza, in perfetto dialogo con le pareti ed il Palazzo che pure vanta quasi quattro secoli di vita in più. I colori di Botero non sono gioco e non sono gioco le sue forme piene: se si fosse trattato di una pittrice già si sarebbero scritti trattati sul perché utilizzasse le forme piene (ricordate le meravigliose Nana dell’artista francese Niki de Saint Phalle? 1930 -2002), ma la mostra s’attiene a ciò che dichiara l’artista e a noi, pubblico, sembra che questa soluzione creativa sia un modo schietto e buono di portare in giro per il mondo, anche in una fortunatissima esposizione cinese, le forme burrose della gente comune di Bogotà, di MedellÍn; rappresentata sempre con guanti, ombrelli, borsette, cappelli e dignità da vendere. La rotondità delle forme pittoriche o delle piccole statue in bronzo, marmo bianco e rosa, ha un tocco quasi alieno (le grandi tele e le sculture in dialogo sono una meraviglia): quale idea di perfezione e di colore definitivo, di blocco materico, permette di realizzare forme simili, senza sbavature, che inaderenti al loro peso supposto o reale (le sculture), sembrano stare come palloncini gonfi di elio nello spazio immaginario dei quadri o in quello reale? (i colori e il loro alternarsi, per quanto più definiti, ricordano La danza di Henri Matisse). E poi: Botero si dedica all’acquerello, materia pittorica solo all’apparenza semplice, e disegna a matita, a sanguigna, infinitamente bene: mette in relazione le figure studiando l’armonia dei gesti, si applica sui particolari delle stoffe, di un’asola, del rigonfiamento di un cuscino: molto di quel che disegna sparisce nei dipinti eppure lui lo ha pensato, declinato, particolareggiato; quindi l’artista sente di dover lasciare traccia del suo lavoro complessivo, ché il dipinto è solo un punto di arrivo.
L’autore della pura gioia pittorica, che sembra manifestarsi nei suoi quadri a due dimensioni, comincia a trasformare la propria immagine in chi lo guarda, secondo la logica dell’esposizione: ci sono i ritratti del piccolo Pedro, suo figlio, morto a quattro anni in un incidente; dei migranti senza casa che viaggiano con la morte accanto; di suo padre contadino che cavalca un mulo. Gli stessi colori squillanti, viranti verso toni più intensamente drammatici, accompagnano le torture dei carcerati internati nella prigione irachena di Abu Ghraib con le loro fontane di sangue che sgorgano dalle ferite, la dignità umana per sempre offesa, la morte a fianco (scheletri candidi come quello dell’acquerello Scheletro con rose, tema rinvenibile nella pittura sud americana o nella ‘danza macabra’ tardo medievale). In questi quadri densi di sofferenza ritroviamo ancora Botero dei colori e delle forme ma l’artista pare testimoniare che dietro il suo mondo ‘realisticamente magico’ (torna ancora in mente il prelato nella natura da ‘Macondo’ brillante e rigogliosa), non ha mai smesso di sentire la sofferenza, raccontando coi pennelli il suo sdegno nel mostrare la violenza dell’uomo su suoi simili, condannando quelle ‘gesta’ ad essere conosciute a chi guarderà questo contemporaneo ‘maestro del colore’. La mostra, che terminerà il 19 gennaio 2025, salvo proroghe, è una giostra di pura gioia per gli occhi (ed una giostra di colori il visitatore potrà incontrarla davvero,) e quest’arte non svela solo i segreti della propria avvenenza nella solarità catturata dai colori, ma svela davvero l’animo complesso d’un artista rimasto curioso come un bambino nell’arco di tutta la sua esistenza. (Serena Grizi)
Nell’immagine: Fernando Botero, Ballerina alla sbarra, 1988 – olio su tela
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