Bestie
Non ho letto la traduzione italiana di Bestie di Joyce Carol Oates, edita da Mondadori nel 2002 e, in formato tascabile, dal 2004. Ho letto l’edizione originale, pubblicata da Carroll & Graf nel 2002 col titolo Beasts. Si tratta d’una novella ambientata prevalentemente negli anni Settanta, in cui viene raccontata la disavventura amorosa di Gillian Brauer, una studentessa universitaria invaghitasi del suo docente. L’approccio di Oates è quello d’un femminismo duro, per il quale il professor Andre Harrow e la moglie Dorcas rappresentano quanto di più subdolamente affascinate e lesivo vi sia nei confronti delle studentesse del college. Bestie è una novella cupa, dolorosa, in cui la vendetta finale di Gillian ha la meglio su una concezione patriarcale della donna. È scritta benissimo, con grande fluidità e un linguaggio adeguato ad esprimere il grigiore e le angosce della protagonista, ma non ha un grande spessore riflessivo. Non certo per la sua brevità, ma per l’aggressività spicciola, quasi scontata, con cui Gillian uccide i coniugi Harrow, incendiando la loro casa. I riferimenti di Oates all’astensione alimentare e alla piromania sono due degli agganci alla prima ondata femminista a cavallo tra Otto e Novecento, che tali metodi usavano per i propri proclami suffragisti, i quali, insieme alla più moderna questione della pornografia in seno alle riflessioni femministe, portano in primo piano un’eroina che, ribellandosi, si fa portavoce d’un atteggiamento illiberale, censorio e oscurantista, in nome delle problematiche suscitate dall’incapacità di dominare il proprio desiderio. Questa chiusura mentale, che non propone un ventaglio di soluzioni cui poter attingere, se da un lato può giustamente raffigurare l’orizzonte percettivo d’una giovane che si senta intimamente aggredita ed evocarne gli umori sgradevoli, al contempo presenta una soluzione ‘facile’, nonché datata e retrograda rispetto alle relazioni di gender. Se una differenza d’idee va colta tra autore e personaggio, tale differenza qui non è data. I temi dell’astensione alimentare nella donna e della sua raffigurazione offensiva sono delicati, articolati e complessi. Arcipelaghi di fogli di varia natura vi son stati dedicati. Joyce Carol Oates se la cava troppo alla spicciolata, non solo rispetto a queste tematiche, ma esprimendo giudizi a braccio su autori dapprima affascinanti e poi deludenti per Gillian, come D. H. Lawrence (la sua raccolta di poesie Birds, Beasts and Flowers, – in italiano Uccelli, bestie e fiori – dà il titolo alla novella), la cui complessità letteraria non può esser ridotta ad una passata di spugna che ne cancelli il rilievo ideologico. I riferimenti continui a Lawrence finiscono per costituire un approccio intellettualistico ostentatamente colto, privo però d’un respiro intellettuale che vada oltre l’etichettatura utile alla bisogna dell’autrice. Nonostante questi difetti, l’espressività stilistica di Oates mette in luce gli umori d’una femminilità individuale ben raffigurata. Condividere in qualche misura le sensazioni e impressioni di Gillian, nei modi in cui l’autrice li propone, non è poca cosa. Sembra che Oates abbia voluto dedicare le pagine del libro alla singolarità dell’eroina, benché le tesi su mascolinità, femminilità e conflittualità di gender che ne vengon fuori non offrano, a chi s’interessi di queste tematiche, spunti originali, né sia in grado la scrittura di Oates di mettere in discussione i discorsi più raffinati su questioni ampiamente controverse.
Non ci sono commenti, vuoi farlo tu?
Scrivi un commento