Berlino non crede alle lacrime
La ‘sindrome tedesca’ non accenna a diminuire tra i ranghi dell’establishment di casa nostra. Gli elogi al loro celebre modello si sprecano e le analisi, tracciate con fin troppa disinvoltura sui raffinati inserti economici del lunedì, si moltiplicano. La Germania è veramente vostra amica! sembrano dire, ma non si riesce quasi mai a penetrare o a sciogliere i nodi fondamentali della questione.
Non si scava, ad esempio, nel rapporto privilegiato con la Russia, dalla quale dipende per il 36% per la fornitura di gas o sulla Mitbestimmung, la co-determinazione, per la quale i sindacati siedono nei Consigli di Amministrazione delle loro grandi industrie. Pare un mistero, di quelli gloriosi, o un bizzarro puzzle al quale manca qualche tessera per essere completato.
Un piccolo, ma a suo modo prezioso tassello, lo offre Mario Monti in un’intervista del 2012 rilasciata al settimanale tedesco Die Welt: «Io ho sempre lavorato per un’Italia che somigliasse il più possibile alla Germania», afferma. «Ho sempre voluto un’Europa della concorrenza, che si impegnasse il più possibile per l’idea di un’economia di mercato sociale, che proviene da Ludwig Erhard». Abbiamo così aggiunto, grazie al celebre bocconiano, un frammento al nostro puzzle, che assume così un significato più compiuto con il riferimento, illuminante, alla cosiddetta ‘economia sociale di mercato’.
Libero mercato affrancato dai vincoli
È questo uno dei tanti anelli mancanti che sottende al ‘modello tedesco’ tanto invocato, ma che molto spesso viene sottaciuto. Un sistema economico che sorprendentemente si intreccia con la dottrina sociale della Chiesa cattolica, espressa nel 1891 nella Rerum Novarum di Leone xiii, dove si promuove la libertà di mercato, la proprietà privata e la libera impresa, nella quale i lavoratori devono lealmente collaborare con gli imprenditori eliminando i contrasti e gli immotivati ‘muro contro muro’, per perseguire il bene comune.
Negli anni Trenta la Scuola di Friburgo, sorta di think-tank dell’epoca, contribuì all’espansione di questo sistema, spingendo ancor di più sull’acceleratore dell’individualismo economico e del libero mercato affrancato da vincoli e pastoie, rielaborandolo e rendendolo moderno attraverso la teoria dell’Ordoliberalismo. All’apparenza questa si propone come ‘terza via’ tra capitalismo e socialismo, e presuppone uno Stato forte, autoritario ma non interventista, una ‘politica dell’ordine’ (Ordsnungpolitik) che, per essere garantito, deve poter contare sul consenso dei corpi intermedi e sull’attenuazione e rimozione dei conflitti: in realtà un’economia corporativa mascherata dietro i richiami alle libertà individuali, ma soprattutto dei capitali.
Per Ludwig Erhard, citato da Monti e sostenitore della concezione Ordoliberalista della società, già consigliere economico di Adenauer e dal ’63 al ’66 Cancelliere della Repubblica Federale, «la libertà deve essere collegata all’ordine, l’ordine senza libertà porta alla costrizione, la libertà senza ordine minaccia troppo facilmente di diventare caos». È lo stato d’eccezione, perennemente ribadito, emergenziale e plebiscitario, che sprona i cittadini-comunità a una continua coesione nazionale contro il nemico, dapprima l’ebreo, poi la sinistra extraparlamentare (con il Berufsverbot), ora il debito.
Neanche a dirsi, molti esponenti di questa ‘scuola di pensiero’ risultarono spesso, se non apertamente collusi, certamente contigui alle visioni del III Reich, come gli industriali del settore chimico Höchst, Basf e Bayer, o quelli dell’acciaio come i Krupp. Gli stessi che dal 1952 al 1965 portarono avanti una martellante campagna pubblicitaria in tutta la Germania dell’Ovest a sostegno dell’economia sociale di mercato.
Un esercizio di biopolitica
Questo, in sintesi, l’apparato teorico-pratico sul quale si incardina l’organizzazione ideologica della società tedesca e il suo ‘modello’. Il controllo sociale alla massima potenza. Un esercizio di biopolitica, direbbe Michel Foucault, che struttura e permea i rapporti all’interno e all’esterno, come dimostra l’ossessione per il risanamento del debito e del bilancio pubblico estesa all’Italia e alla Grecia, alla Spagna e al Portogallo. Un’ossessione che si trascina dall’iperinflazione di Weimar del 1923, quando un dollaro valeva 4200 miliardi di marchi, un chilo di pane valeva un chilo di banconote e per accendere una stufa se ne bruciavano all’incirca cento chili. Per poi arrivare al baratto.
Nell’inverno del ’47 la massa di morti viventi che ancora si aggirava nelle città tedesche distrutte nutrendosi di radici, obbliga la Chiesa locale ad ammettere la pratica del furto tramite le autorevoli parole del cardinale di Colonia Joseph Frings: «Viviamo tempi in cui agli uomini è permesso di prendere il necessario per mantenersi in vita e in salute, se non sono in grado di ottenerlo con il lavoro o la carità». Se quella singolare Kulturkampf che il governo italiano ha ingaggiato verso sindacati, lavoro e parlamento fosse realmente volta al raggiungimento del ‘modello tedesco’, le parole di quel cardinale potrebbero risuonare di nuovo, un mercoledì qualunque, in piazza San Pietro.
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