Beat Poetry Machine: “Ho visto le migliori menti”
Beat Poetry Machine è un reading teatrale per poesia e orchestra condotto da Marco Palladini che, inequivocabilmente, esordisce così: “Ho visto le menti migliori della mia generazione distrutte dalla pazzia, affamate nude isteriche… “. Non un solipsistico brivido bensì coinvolgimento di memorie e sensazioni, con un pubblico fin da subito avvolto tra fragranze da Wholly Communion.
Ad affiancarlo in questa ardua impresa c’è la Titubanda, uno di quei più recenti progetti nati sotto forma di collettivo aperto dalle ceneri dei tempi che furono e che, nell’ultimo decennio, hanno arricchito il panorama nazionale di notevoli spunti d’impegno sociale all’insegna dell’indipendenza discografica, trovando interessanti riscontri di pubblico.
Una big band ricca di radici latine, che attinge a samba e afro seventy, quello più colto e progressivo degli Osibissa, ma anche quello inerente una compagine più commerciale che, ai tempi di Marley, s’introduceva nel mercato nazionale, prima dell’esplosione di alcuni celebri casi degli anni Ottanta, come quello dei Toure Kunda. Notevoli e nondimeno inevitabili ascendenze si ravvisano nel R&B, ma soprattutto in quel che la stessa band vuole evidenziare, che è il concetto di banda di strada che torna a sancire variopinti localismi e tradizioni. Zappa compare nella seconda parte dello spettacolo, entra in scena con un classico, I’m the slime, ben riadattato per l’occasione.
C’è da dire che spesso il postumo, talentuoso genio zappoide ereditato e istradato alle masse ha portato a citazioni fuori luogo che il maestro, per certo, poco avrebbe gradito. Tuttavia, nel caso della Titubanda, semplicità e capacità di organicità e arrangiamento permettono addirittura di decollare in un medley più che mai convincente, capace di dialogare infine con i contaminati fraseggi sessantottini dei King Crimson introdotti con tanto di marcia beatlesiana. Testi che ripercorrono l’epopea beat, da Kerouac a Ginsberg passando per Gregory Corso, ma non mancano anche Ferlinghetti e i taglienti testi del malcolmiano, islamico e marxista Amiri Baraka con le sue polemiche riletture della storia americana più recente. Scorrono così i protagonisti di un’indelebile stagione, proiettati anche sullo sfondo, raggianti di rutilanti osservazioni col loro bianco e nero immortalato in evocativi sorrisi sulla scena.
Una lunga esperienza nel settore, consolidata da anni, oltre alla rilettura e traduzioni dei testi capaci di rendersi catartici tanto nell’interpretazione quanto nell’immediatezza espressiva mediata da ponderate ricercatezze, caratterizza un monologo avvincente e incisivo, che lambisce il musical, sia per gli spunti che per la capacità espressiva e dialogica dei numerosi elementi che compongono la Titubanda.
Con Palladini, come del resto accadde con la beat generation, la poesia rompe i suoi schemi per tornare al pubblico, il poeta abbandona roccaforti e feudi e si fa carne sulle strade e tra la gente. Un viaggio onirico e reale, comunque visionario, a tratti preveggente, vivido del consunto e depravato brulicame d’esistenze che contraddistingue la ricerca dei suoi personaggi, ma dove poi, puntualmente, scocca la scintilla dell’illuminazione che soltanto dal basso, sulla strada, e non altrimenti, è capace d’ingenerarsi.
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