Barry Clifford e la presunta nave di Colombo
Barry Clifford è un archeologo subacqueo abbastanza noto nel suo Paese. Ricopre incarichi di docente in alcune università americane, è autore di diversi volumi specialistici e divulgativi sulla materia, ogni tanto scrive un articolo per qualche rivista ed è protagonista di innumerevoli servizi televisivi sulle sue imprese, spesso condotte in collaborazione con la National Geographic Society.
Le sue specialità sono l’individuazione e il recupero dei relitti sommersi di antiche imbarcazioni, ma delle centinaia di ritrovamenti effettuati uno in special modo ha rappresentato un punto di svolta nella sua vita: quello della nave pirata americana Whydah, nel 1984. A seguito di quell’impresa Clifford ha realizzato un imponente museo itinerante sulla storia, le abitudini e la vita quotidiana dei pirati di 2-300 anni fa, che non solo gli ha procurato delle discrete entrate economiche, destinate a finanziare altre imprese, ma gli ha conferito un credito e un’autorevolezza di prima classe sia presso il mondo accademico che nell’opinione pubblica statunitense.
È per questo che quando, poche settimane fa, Clifford ha annunciato di aver localizzato a poca distanza da Haiti il relitto della nave ammiraglia con cui Colombo “scoprì” l’America, ovvero la Santa Maria, i mezzi di informazione di mezzo mondo hanno riportato la notizia dedicandole ampi spazi e commenti uniformemente positivi. La soddisfazione unanime si è comunque dopo poco incrinata e hanno cominciato a farsi sentire le voci di alcuni storici ed esperti di archeologia subacquea miranti a contraddire l’annuncio di Clifford, o quanto meno a ridimensionarne molto la portata. Senza voler fare dietrologie sui motivi di quelle tentate smentite, si resta sconcertati nel notare che i commenti critici non apportano alcun elemento di chiarezza, dato che in definitiva si contraddicono vicendevolmente: qualcuno ha detto che Clifford non ha scoperto niente, perché dove fosse affondata la Santa Maria era noto da tempo; altri hanno negato la possibilità del ritrovamento, perché la nave sarebbe stata smantellata già nel 1493 per utilizzarne i materiali in altro modo; altri ancora hanno sottolineato che sarà sempre impossibile stabilire l’identità di quel relitto, stante il fatto che l’ammiraglia di Colombo certamente portava un altro nome, rimasto sempre ignoto.
Come andarono le cose
Salpato il 3 agosto del 1492 dal porto spagnolo di Palos de la Frontera al comando di una novantina di uomini imbarcati su tre scafi, due caravelle (lunghe poco più di una ventina di metri) e una caracca (imbarcazione un po’ più grande), Cristoforo Colombo si mise davvero in viaggio attraverso l’Atlantico soltanto un mese dopo, perché la rottura del timone di una caravella costrinse a una lunga sosta alle Canarie per le riparazioni. L’avventura riprese il 6 settembre e il piccolo equipaggio avrebbe navigato in mare aperto per cinque settimane prima di giungere nuovamente in vista di una terra. Lo sbarco sarebbe avvenuto il 12 ottobre successivo, in un’isola immediatamente battezzata San Salvador.
Molti i punti oscuri e gli elementi ignoti della vicenda. A cominciare dal suo protagonista, esploratore di origini incerte tra Spagna, Portogallo, Sardegna e Genova; fino ad arrivare alle navi che consentirono l’impresa e all’isola del primo approdo nel nuovo continente, che ancora nessuno è riuscito a identificare. I nomi con i quali le imbarcazioni sono passate alla storia sono posticci: la Niña (in spagnolo bambina) si chiamava in realtà Santa Clara e proprio così fu chiamata nel corso della seconda spedizione di Colombo per le Americhe; della Pinta (dipinta) si ignora la vera denominazione; mentre della cosiddetta Santa Maria, definita la Capitana dalle cronache dell’epoca, si sa che non portava né quello né il nome Gallega (galiziana), perché tutte le navi spagnole erano dedicate a una santa.
Delle tre, la Santa Maria andò distrutta a fine dicembre del 1492, incagliandosi in un reef al largo dell’isola (oggi) Haiti. Colombo, avvisato dell’incidente, dette ordine di recuperare il cannone di bordo e quant’altro potesse servire per attrezzare una guarnigione sull’isola; poi lasciò la nave al suo destino, cioè all’affondamento, occupandosi di riportare in Spagna i suoi marinai, le due caravelle superstiti e un po’ d’oro, tabacco, alcuni pappagalli e 10 indigeni, a testimonianza di quel che aveva trovato nelle terre al di là dell’Oceano.
Il senso di un rinvenimento
È possibile dunque che il relitto scovato da Clifford sia quello della cosiddetta Santa Maria? L’archeologo americano si è detto sicuro di aver riconosciuto in una “piccola imbarcazione” lo scafo sommerso di Haiti. Poiché non furono molte le caravelle e le piccole navi persesi proprio in quella zona, l’identificazione dovrebbe essere certa. D’altro canto, un dettaglio sembra in conflitto con quanto è noto: un cannone del xv secolo, che Clifford sostiene di aver avvistato ancora a bordo del relitto. Se, come sembra certo, i marinai di Colombo portarono via quello che era sulla Santa Maria, per piazzarlo nel fortino costruito sulla terraferma, allora ovviamente non se ne dovrebbe trovare traccia tra i rottami della nave ammiraglia.
A dipanare i dubbi provvederà forse l’opera di recupero del relitto, cui Clifford sta adesso puntando con una raccolta apposita di fondi. Non ci vorrà un tempo infinito prima di saperne qualcosa, ma certo la conclusione della faccenda non è esattamente dietro l’angolo. Occorre, più che altro, pazienza e la consapevolezza di non poter giungere subito alle conclusioni. Potenza e limiti di ogni vera impresa scientifica.
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