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Attraversando la strada

Novembre 04
02:00 2007

Mentre attraversavo la strada per recarmi in ufficio, due ragazzi mi sono sbattuti addosso, non avevano più di tredici-quattordici anni, l’aspetto spavaldo di chi non chiede permesso, i cappellini da rapper duro, avevano un‘aria tra le righe, come se non toccassero terra con i piedi. Si passavano con ingordigia una sigaretta, non proprio una siga, ma uno spinello, di quelli fatti male perché arrotolati in fretta. Il giardinetto della stazione è diventato un rifugio momentaneo, incuranti del traffico e della gente, tra uno sberleffo e una pacca sulle spalle, hanno continuato a farsi la canna senza interruzione.
Mi ricordavano una scena messa in atto qualche decennio addietro, ma completamente differente non tanto nel paesaggio, piuttosto negli atteggiamenti, nelle esplicazioni trasgressive, nell’intendimento di quel tempo a fare qualcosa “contro”. Questi due davanti a me, non si preoccupavano dei tanti occhi indiscreti, né come degli eventuali disturbi in agguato, derivanti da norme e leggi malamente in stand by. L’alone lasciato dal fumo disegnava l’impunità della normalità, come se nulla e nessuno potesse intaccare quello spazio di trasgressione a perdere, perché rigorosamente tollerata.
La differenza tra quell’era protestataria, contestataria, quella mia, e questa attuale, sta in un disagio giovanile assai più prematuro, ma soprattutto nel mancato “nascondimento” che faceva da corollario allo sballo dei miei tempi. La droga c’era allora, come adesso, l’atteggiamento era diverso: non si poteva farne uso pubblicamente. Non che il “vietato” possieda sufficiente potere per arginare l’inaccettabile, infatti l’abuso di sostanze ha infranto la volontà di sognare a intere generazioni, facendo pagare un dazio terribile più ancora degli ormai dimenticati anni di piombo.
In questo tempo l’uso e l’abuso di droga è talmente decuplicato da rendere improbabile la ricerca di una normalità in giovani depredati di una via di emergenza, faticosa nell’apprendimento, ma “salva vita”, di segnali di allarme inconfondibili, quando la normalità compete con la fantascienza. Il ragazzo di allora, come quello di oggi, si fa le canne, senza mai la scocciatura di un interrogativo, convinto di non dovere mai chiedere aiuto a nessuno, di poter farcela da solo a risolvere i problemi, a tenere a debita distanza la scuola, la famiglia, il rispetto verso se stesso e gli altri… rispetto che non sta dentro la botta di uno spinello, ma nell’attenzione e la considerazione che dovrebbe crescere dentro ognuno di noi, per non diventare spettatori passivi di quanto ci accade, a volte incorrendo in deragliamenti definitivi.
Ciò che ho ricavato da questo incontro, è la necessità, da parte di chi è educatore dapprima con se stesso, poi con la storia personale di tanti ragazzi tragicamente dispersi, di non consentire ulteriori deleghe a una “normalità” artificiale che non fa sconti ad alcuno, neppure al più fortunato degli scommettitori.

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