Assassini in guanti di chiffon
Carnage di Roman Polanski è un capolavoro. Come la monade di Leibniz racchiude e riflette tutto l’universo umano, solo il riflesso di Dio ne resta fuori. Il titolo (in italiano ‘carneficina’, ‘massacro’) è ripreso da un lavoro teatrale di successo di Yasmina Reza, scrittrice francese di origine iraniana, Le Dieu du Carnage. La stessa Reza ha collaborato, insieme al regista, alla sceneggiatura; ed infatti il film volutamente non si discosta dall’impianto teatrale. Tutto si svolge, ad eccezione delle brevissime scene iniziale e finale, magistralmente girate in atmosfera ovattata e distante, all’interno dell’appartamento (e sul pianerottolo) nel quale abita la coppia che riceve la visita dei genitori del ragazzo che, dopo un litigio, ha percosso con un bastone il loro figlio, procurandogli lesioni ai denti. Le apparenti buone intenzioni reciproche di sistemare l’inconveniente in maniera civile, come persone perbene, diventano in breve un trattato, solfureo ma anche divertente ed ironico, sul perbenismo, l’ipocrisia e la falsità più distruttiva che travolgono ogni rapporto umano. Si succedono, in un tambureggiante dialogo, nevrosi latenti e crisi di nervi esplosive, luoghi comuni ed atteggiamenti fintamente progressisti, tentativi di ricucitura subito lacerati da frecciate subdole e avvelenate, frequenti pugnalate alle spalle alternate a blandizie e giravolte verbali, vanterie pacchiane e modestie supponenti. Appaiono tanti feticci contemporanei, telefonini padroni della scena, libri d’arte idealizzati ed esibiti maniacalmente, dubitabili torte casalinghe presentate come limite più alto di capacità ed inventiva, fiori esclusivi dall’Olanda (basta crederci), e tante altre buone cose di cattivo gusto che fanno parte di un panorama quotidiano di seriose reciproche prese in giro. Tutto ciò in una costante analisi psicologica dei quattro personaggi, peraltro azzeccatissimi nella scelta, impersonati con naturalezza e ‘riconoscibilità’ sorprendenti dai bravissimi attori Kate Wislet, Jodie Foster, John C. Reilly e Christoph Waltz. I tempi della rappresentazione sono serrati ed avvincenti: più volte il turbinio di invettive sembra placarsi e la soluzione concretizzarsi, poi, ai saluti sulla porta dell’ascensore, ancora un sibilo malefico e la tempesta impazza di nuovo. Quindi è lotta di tutti contro tutti, con provvisorie comunelle tra uomini o tra donne, tra mogli o mariti, esplosione di sordi rancori e disprezzi all’interno delle stesse coppie, e finale con ubriacatura generale. Insomma un pessimismo cosmico sulle relazioni umane: ognuno pensa solo a sé stesso ed al proprio giardino, ma litiga anche nel suo giardino. Nessuno è esentato dall’interrogarsi personalmente, dopo l’ubriacatura, sul modo di interpretare la vita. Il film termina con una condanna, una speranza ed una certezza. Il telefonino ossessionante del genitore-avvocato saccente, che sembrava morto dopo un bagno nel vaso dei fiori, torna a trillare, a testimonianza che i guai non finiscono mai; ma è un altro telefonino che, in un campo lungo nel parco, avvicina i due ragazzi che evidentemente hanno trovato un modo semplice di fare la pace a dispetto delle deleterie sovrastrutture mentali dei loro genitori; infine il criceto abbandonato, e dato per morto durante l’orda di contumelie, ottiene un primo piano di felicità per essersi, lui sì, liberato di tanta zavorra umana. Ora bisognerà cambiare un tratto della filmografia di Polanski: la cosiddetta ‘trilogia dell’appartamento’ (Repulsion, Rosemary’s baby, L’inquilino del terzo piano), dovrà essere rimodellata in tetralogia perché questo film vi entra ad ottimo diritto. Sono opere che hanno fatto la storia e la scuola del cinema di introspezione, con la macchina da presa che guarda simbolicamente da più punti per una dilatazione di spazi reali ed interiori, mentre il raro sguardo esterno funziona da ‘coro greco’, narrante ed illuminante (il trio di suonatori ambulanti che la protagonista di Repulsion vede dalla finestra è una delle citazioni-messaggio più struggenti dell’intera arte cinematografica). Anche in questo caso grande capacità del regista (ma rendiamo merito per molta parte anche all’autrice del testo) di stuzzicare con finta leggerezza le coscienze, e di interpretare la pochezza dei tempi, dediti molto agli atteggiamenti e allo spettacolo e poco alla riflessione. È facile vedere la storia altra, gli avvenimenti esterni, dirottando là ogni malessere. Più difficile guardare i sommovimenti interni, analizzare i comportamenti critici di ogni giorno, soprattutto se, purtroppo, ci toccano da vicino.
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