Annotazioni per una poetica ontologica
Assunta una Verità come matrice di tutte le cose, tanto dell’essere come del non essere, nel suo espletarsi assoluta induce in errore; per altro verso, se rappresentata, riporta ad espressioni frammentarie, fuorvia confondendo. La Verità elude la condizione fisica pur essendone parte, fintanto da veicolarla al metafisico nel pensiero. Verità che sussiste se interconnessa tanto al piano fisico quanto a quello metafisico e racchiude l’Ideale universale, condizione di perfezione ed equilibrio, eterno nell’accezione del senza inizio e senza fine in ogni sua proiezione e introiezione. Da sempre il piano fisico è caratterizzato dal mutamento sottoposto ad agenti biochimici e geofisici, panta rei eracliteo. Siamo fatti della stessa sostanza delle stelle che, a sua volta, proviene ed è parte di ciò che è sempre stato, inteso come inevitabile contiguità tra piano fisico e metafisico. Sostanza che, nella sua costituzione materica, è condizione soggetta al moto del tempo. Una perfetta stasi parrebbe in antitesi col piano fisico, poiché ogni atomo o subalterna particella comporta un continuo, impenetrabile rimando ad altro movimento come, del resto, suggeriscono da sempre pianeti e stelle. E qui la scienza, anch’essa ormai protesa nella ricerca della Verità, nella pretesa di una tangibile contiguità con l’ultraterreno, segue un suo corso attraverso le nuove frontiere intraviste in buchi astrali e particelle elementari. Se da una parte constatiamo il movimento e la sua ciclicità rigenerativa per mezzo della trasformazione, dall’altra si palesa la sua negazione col fluire del pensiero libero da schemi spazio-temporali. L’ideale ingenerato, proprio per il suo patrimonio attinente all’immateriale nella condizione fisica, è accesso e condizione di mimesi del piano metafisico, ma ogni rappresentazione sul piano fisico è idealizzante e, se strutturata, produce l’ideologia, la quale induce ad una concezione di vita che si pone come dottrina e comporta, in ogni caso, esiti nefasti, devianti, tali da indurre in errore. La meditazione spirituale, ma anche la riflessione laica generante, non quella speculativa, quindi l’uso del pensiero in ragione della sua forza creativa, poiesis evocativa e compenetrante la condizione fisica, ha una valenza antica e tuttavia sopravvissuta nei rituali sciamani, ma anche in poeti degni di essere reputati tali, poiché non compiono azioni troppo dissimili. Alcuni poeti si aggirano in una coltre dogmatica, teocrate o tecnocrate-virtuosistica che sia, permanendo nell’errore, mentre altri, al pari dello sciamano nella possessione che li infonde, sono più esposti alla destabilizzazione della polivalenza frammentaria riportata sulla Verità. La poesia testimonia istanti, frazioni di Verità di per sé incongrue e fuorvianti, poiché limitata nella manifestazione temporale, nonostante sia ancestrale accesso alla sostanza e ai suoi distinti piani configuranti la Verità medesima. Il verso è un’autentica manifestazione dell’assoluto con un inizio e una fine, come tale disorienta in quanto soggetto all’immanenza dello spazio-tempo che ne altera l’originaria perfezione, ove l’istante non è più parte integrante dell’eterno, ma frazione di tempo scandito dal piano fisico. La poesia non è un testo fruibile in qualsiasi momento o condizione. La poesia è. In quanto tale, è compenetrabile solo in estemporaneità segnate dal testo attraverso la vibrazione del suono. L’istante di Verità proiettato nella poetica diviene quindi alterato, rapportandosi alla dimensione temporale. Tuttavia esso può essere immortalato attraverso il suono, che rende atemporale quanto sedimentato nella memoria universale, il qualcosa che ci comprende e la poesia percepisce in non luoghi diversamente non rapportabili al piano fisico. Nella tradizione orale permane traccia della sacralità del suono. L’originario “Canto” di Orfeo, lo sguardo alla volta di Euridice che resta sospeso nel momento tra luce e tenebre, anabasi e catabasi dell’istante poetico di ricerca che riporta ad una Verità frammentaria, sono mito e fondamento della cultura. Come la memoria, attraverso odori e suoni, agisce liberata da ogni schema preposto conducendo all’essenza dei ricordi svincolati da strutture, a partire dal tempo, la poesia, per altro verso, costituisce identità liberate occultandole, dei non luoghi in cui la memoria svincolata tornerà a condurci attraverso i primigeni sensi, mentre tatto, gusto e vista permangono più intimamente legati al piano fisico, seppure non esclusivamente. Udito e olfatto costituiscono gli archetipi sensi tramite i quali, se ancora debitamente sviluppati, si è in grado di percepire oltre la propria conformazione e quanto ci circoscrive, sono dunque sensi estesi, protesi verso l’oltre. La luce, assurgendo ad elemento simbolico metafisico, è la visione, non il visibile, che pervade tanto lo sciamano quanto il poeta. La visione è guidata da suoni ed odori, mentre la poesia genera identità liberate preposte alla visione. La luce, pertanto, è sì visibilità nella costante spazio-tempo, ma, altrove, è anche la compenetrazione, stato di alterazione psico-fisico, quindi il predisporsi all’oltre. Il dualismo luce-tenebre riconduce ad ataviche paure genesi di moralismi, ma in realtà è riconducibile a ciò che è visione o altrimenti è visibile. La contrapposizione è condizionata dall’osservazione del piano fisico con rimandi allo stato onirico, altra esperienza di alterazione dei sensi ma che, tuttavia, in quanto riprodotta nell’inconscio, resta legata all’istinto di rifiuto della morte. Ogni riferimento ad un aldilà suddiviso tra inferno e paradiso non è che un paradigma costituto sull’ordine fisico, un errore che sancisce la verosimiglianza tra il qui e l’oltre, piuttosto che interdipendenze nella celata contiguità sostanziale. Talune religioni che individuano nella reincarnazione la realizzazione su differenti piani volti al metafisico, sono più attinenti ad una rappresentazione di condizione di visione o mancata visione che riconduce al visibile, dunque al piano di provenienza. Solo un approccio eroico verso la vita, vero inferno vincolato al piano fisico nell’impenetrabile consapevolezza dell’oltre, è in grado di ribaltarci dignitosamente verso il nulla, ma questo non determina un’originaria malevolenza, bensì condizione d’iniziazione. L’insegnamento del poema omerico, dunque, resta sempre un valido punto di riferimento. La Commedia dantesca, tuttavia, meglio palesa la percezione fisica dell’aldilà attraverso l’ipogeo delle terree viscere dell’inferno e l’apogeo montagnoso del purgatorio. Allegoria di un viaggio nell’oltre del poeta, o piuttosto dello sciamano, che vi si annuncia nella “selva oscura”. Viaggio che si formula nella percezione di dimensione, cognitiva e avallata dalla presenza intellettiva di Virgilio. Contrappasso che riconduce a retaggi medievali, ma anche al karma nella sua istanza evolutiva. Con l’approssimarsi del paradiso subentra l’elemento della realizzazione del sé, ossia Beatrice che, nell’ascensione tra i cieli, conduce alla percezione originaria, dove il visibile è soggiogato dalla visione. “La novità del suono e ‘l grande lume” sono altresì sigillo dell’empireo, memoria cosmica svincolata nella visione. Qui ogni consistenza diviene sempre più percezione di essenza, entità parzialmente rivelata, dove la “candida rosa” dei beati esplicita i sensi olfattivi. Un viaggio che giunge prossimo al punto di contiguità con l’assoluto, ove l’energia fonde e la visione stessa diviene accecante e indicibile, “amor che move il sole e l’altre stelle”. Oltre vi è l’impenetrabile, l’insondabile, la perfetta stasi dell’istante compiuto in eterno, Verità a prescindere da ogni condizione. In sintesi, a proposito dei sensi, potremmo ricollegare il tatto e il gusto a funzioni di con(tatto), dove la memoria ha un corso perlopiù vanificato nella transizione dell’evento ed assume collocazione rievocativa. Essi sono mediati, nei picchi percettivi, da una mistica carnale attraverso una relazione dionisiaca. La vista, nella sua funzione di percezione della dimensione, predispone perlopiù una memoria cognitiva, elaborata nell’esercizio intellettivo. L’olfatto, percezione di essenza, è un’elaborazione inconscia e pervadente, dove la memoria è svincolata e la mediazione è incondizionata. L’udito è una funzione, tra l’altro, di equilibrio, trait d’union primigenio nella vibrazione siderale. Sensi che, in ogni caso, costituiscono la sfera di percezione poetica relativamente all’inclinazione individuale ed il sentire interiore, quanto i poeti dovrebbero avere connaturato. La predisposizione alla comprensione dell’animo porta il poeta ad assumere un’ulteriore facoltà percettiva: la vibrazione interiore, altresì suono, funzione incondizionata che conduce il poeta alla sublimazione. I poeti, come gli sciamani, hanno quindi un sesto senso, qualcosa che li rapisce all’esperienza dell’oltre. Non c’è poetica senza una cognizione ontologica. Non c’è r(e)sistenza se la poesia viene meno dal quotidiano. Viviamo sostituendo le nostre parti con quanto ci ha preceduto, ricedendo alla terra, fin da subito, l’acconto di un debito in sospeso tramite i nostri escrementi. Se resterà qualcosa a noi riconducibile è il pensiero, tanto sul piano fisico attraverso la scrittura, quanto su quello metafisico attraverso la vibrazione, sintesi, peraltro, ben rappresentate nel mito di Orfeo. Il noumeno diverrà fenomeno nel compimento del nostro transito. Resterà la nostra più intima verità che, se autentica, saprà ovunque e comunque capitalizzare altra Verità. Disobbediente ad una coscienza relegata all’habitus, oso ancora declamare arrancando al buio: Credo nel nulla:/ l’incomprensibile che non è,/in ogni inconsistente particella/sopra cui sanguina il cervello/per inesplicabile inconcretezza./Credo alla sua perenne,/impenetrabile atemporalità/e la più giovine saggia età./Credo nel selvaggio istinto,/a chi più nulla chiede/e niente dirmi saprà./Credo nelle aguzze,/roventi affilate spade/del lupo assassino,/in ogni creatura/sensibile e affamata.
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