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Ancora la “matematica per deficienti”

Aprile 02
14:43 2009

Mentre alle gare di matematica Kangourou (un gioco-concorso matematico internazionale, nato in Australia nel 1981 e arrivato in Europa nel 1991, riservato a studenti dalla quarta elementare fino all’ultimo anno delle scuole medie superiori) si propongono quesiti che richiedono spirito d’osservazione, capacità logiche, creatività matematica che si esplica nel coordinato utilizzo delle conoscenze matematiche di vario tipo acquisite nel corso degli studi scolastici, nelle nostre scuole, purtroppo, si assiste – come ho potuto constatare personalmente attraverso mio figlio – al perpetuarsi di quell’insegnamento della matematica che Bruno de Finetti, senza mezzi termini, bollava come “matematica per deficienti”, nella speranza di scuotere le coscienze di certi insegnanti e di non “far odiare la matematica al 99% delle persone a cui è stata inflitta” rendendola, invece, “istruttiva e anche divertente”, stimolando “immaginazione e interesse per vedere direttamente i problemi”. Costringere bambini della scuola media ad imparare a memoria definizioni a pappagallo, senza veramente rendersi conto del loro significato – perché così non viene offeso il famigerato ‘rigore matematico’ – significa, purtroppo, confermare “tutta l’imperversante concezione didattica tradizionale: abituare ad imparare e credere senza capire”. Aveva ragione de Finetti ad auspicare “di far sempre assimilare tutte le cose nuove allo stesso modo in cui, nell’età da 0 a 5 anni, prima che la scuola intervenga e spesso distrugga tutto questo bell’avvio, si assimilano tutte le nozioni che si assimilano, tutta la base di tutto quello che verrà dopo.” E in che modo? Cercando “di far recuperare la freschezza mentale dei bambini, la capacità di autoeducarsi e autoistruirsi con l’osservazione e la riflessione diretta”, abituando a scoprire da sé la matematica, a costruirsela, sotto la guida dell’insegnante. Questo “sarebbe il più grande successo e il più grande dono che una scuola ben concepita possa offrire a un essere umano”. Il rigore, la precisione, l’astrazione della matematica – ma anche qui è bene far capire quando e in che misura hanno senso – sono i gioielli che l’adornano e la fanno risplendere di bellezza, ma devono essere ‘capiti’ per essere accettati, e non passivamente ‘subiti’ obtorto collo. L’insegnante dovrebbe essere non una jena pronta a sbranare il bambino non appena pronuncia una parola sbagliata – o la omette – della definizione stampata sul libro, ma un’amorevole guida che faccia ‘toccare con mano’ al bambino stesso i suoi errori, persuadendolo della ‘necessità’ di usare certi termini, per evitare ambiguità o false interpretazioni. In questo modo si abituerà a capire che le definizioni della matematica non sono un vuoto capriccio degli ‘adulti’ che la conoscono già, ma sono esattamente quelle cui arriverebbe lui stesso per esprimere correttamente certe idee o proprietà. Insomma rigore, precisione e astrazione devono essere una sua conquista e non territori annessi di prepotenza al suo bagaglio culturale. Un’altra malattia dell’insegnamento matematico scolastico non ancora del tutto debellata è il culto dell’algoritmo matematico, che assomiglia molto alla “Tartinvillite” o “trinomite” già burlescamente denunciata da de Finetti negli anni Sessanta, consistendo nel proporre in maniera ossessiva nei licei scientifici sempre lo stesso tipo stereotipato di problemi, risolvibili con equazioni trinomie di secondo grado, secondo uno “schema macchinale, formale, pedestre”. Nella scuola media inferiore ancor oggi si propone a ‘bambini’ di dodici anni l’algoritmo per il calcolo della radice quadrata e vi sono insegnanti che pretendono che sia imparato – necessariamente a memoria – perché – dicono ai bambini – gli algoritmi sono molto importanti in matematica! Tale algoritmo è macchinoso, lungo, totalmente inutile perché esistono le tavole numeriche per calcolare la radice quadrata (anche senza voler ricorrere alle calcolatrici elettroniche) e non possiede nessun elemento educativo perchè non è possibile darne la dimostrazione a bambini della scuola media e ha il difetto – come tutti gli algoritmi – di prestarsi ad essere applicato meccanicamente, diventando un automatismo di suprema idiozia. E’ utile soltanto come esempio di algoritmo, significativo soprattutto per chi volesse creare un programma software per la sua implementazione. Ahimé, piuttosto che il crocifisso, occorrerebbe mettere nelle aule scolastiche, dietro la cattedra e ben visibile, questo cartello di definettiana memoria: “Occorre scatenare l’intelligenza, non soffocarla”.

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