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“All’altezza dei suoi occhi”

Luglio 15
06:32 2017

Il primo aprile, presso la città di Alba (Cn), si è conclusa la sedicesima edizione del Concorso Letterario Nazionale “Bere il Territorio” promosso e portato avanti dal 2001 dall’Associazione Go Wine, che vi presentiamo con le loro stesse parole:
«L’Associazione “Go Wine”, costituitasi ad Alba nella primavera del 2001, nasce da un’idea semplice, che prende ispirazione da come è cambiata, e velocemente, l’immagine del vino in questi ultimi 10 anni. Il vino non solo inteso come prodotto di qualità ed espressione della cultura agro-alimentare di un paese, ma il vino come prodotto che “mobilita”, che fa viaggiare, che “muove”. Go Wine guarda al consumatore di qualità che ama viaggiare per il vino, per conoscere i luoghi della produzione e si propone di costruire un progetto che gradualmente possa coinvolgerlo e stimolarlo.»
Tornando al concorso letterario “Bere il Territorio”, il tema dei racconti proposto dal bando era “Raccontare il vino attraverso un viaggio”. Un viaggio che raccontasse un territorio del vino italiano, dando risalto ai valori dell’enoturismo, quali il paesaggio, l’ambiente, le tradizioni locali e le vicende locali e la cultura.
Il concorso era strutturato in due sezioni, suddivise in fasce di età:
– Sezione generale riservata ai ragazzi con età compresa tra i 16 e i 24 anni;
– Sezione generale per chi avesse oltre i 24 anni di età;
– Sezione speciale, per gli studenti degli istituti agrari italiani (di età compresa fra i 14 ed i 20 anni).
Come in ogni edizione si è premiato un “Maestro” di Bere il Territorio, scelta che ha portato presso la Sala Fenoglio in quel di Alba, lo scrittore Maurizio Maggiani, che con le sue parole ha incantato la platea dei presenti raccontando il suo territorio di origine la Liguria degli anni cinquanta, le esperienze di un bambino, poi ragazzo e uomo, che ha visto, vissuto e conosciuto il cambiamento dei nostri territori e della nostra società attraverso gli anni sessanta e settanta, il passaggio da civiltà contadina a civiltà cittadina, con una schiettezza e purezza che si ritrovano come spirito conduttore in tutti i suoi romanzi.
Un premio speciale è stato assegnato al giornalista Gigi Padovani, penna del food tra le più prolifiche e attente in Italia, per il suo ultimo libro “L’arte di bere il vino – e vivere felici”.
La giuria del concorso era composta da: Marco Balzano (scrittore), Gianluigi Beccaria (Università di Torino), Valter Boggione (Università di Torino), Margherita Oggero (scrittrice), Bruno Quaranta (La Stampa-Tuttolibri), Massimo Corrado (Associazione Go Wine) e Giorgio Bàrberi Squarotti (Torino, 14 settembre 1929 – Torino, 9 aprile 2017), critico letterario, italianista, poeta e professore dell’Università di Torino, qui citato in ultimo non per minore importanza ma per ricordarlo a tre mesi dalla sua scomparsa.
Tornando al nostro territorio, il racconto vincitore della sezione generale riservata a chi ha oltre 24 anni è stato scritto da una monticiana, ossia da me che firmo anche questo articolo. Il titolo del racconto è “All’altezza dei suoi occhi”, una passeggiata con una bambina tra i filari dei vigneti di due territori del centro Italia.
Il racconto già pubblicato nel n.76 del Bimestrale di enocultura edito dall’associazione Go Wine, lo pubblichiamo per voi qui di seguito:
“All’altezza dei suoi occhi”

“Zia”
“Si, dimmi Cate’”
“Perché piange?”
“Ma chi sta piangendo?”
“Zia, ma non lo vedi? Quella pianta sta piangendo”.
Camminavo con lei per mano, io guardavo più su del mio naso, quasi gli occhi al cielo, lei guardava all’altezza del suo nasino, delle scarpe pulite avevamo ormai un lontano ricordo, ma non ci importava, l’importante sarebbe stato pulirle prima di entrare nella piccola locanda di Orsola.
Alla sua domanda mi fermai, mi costrinse a fermarmi quella vocetta interrogatoria e impertinente, quella dei perché nei momenti più giusti e al tempo stesso più sorprendenti.

D’improvviso mi ricordai di qualche mese prima, eravamo verso la metà di un settembre tiepido e soleggiato, si camminava tra i filari nodosi di una vecchia vigna, uno di quei piccoli frammenti di terreno vitato, che resistono tra le nuove ville dei Castelli Romani, le prime gite, il paese dei nonni, la vigna, una tessera di mosaico del colore della Malvasia di Candia e lei che dal silenzio, fermandosi, mi chiese “zia cosa è quello?”
Era già con il piccolo indice lì, puntato, in direzione di uno dei miracoli della natura, un’esuvia, intatta, perfetta, nel suo dorato splendere, apparentemente immortale, appesa al tralcio legnoso della vite.
Le dissi “Cate’, è il vestito estivo di una cicala canterina, ha fatto il cambio di stagione, come tua mamma lo sta facendo ora nel tuo armadio”.
Mi meravigliai di vederla soddisfatta “ho capito zia, la cicala si è spogliata. Le facciamo una foto? Per farla vedere a mamma” smartphone alla mano si immortalò quel piccolo gioiello dorato.

“E-su-via
Saluto alle notti,
calde e cantate,
saluto ai giorni,
di frinire amoroso.
Arriva il riposo,
del colore caldo
della foglia caduta,
la vita ninfale esaurita,
lo scheletro dorato
figlio canterino
della stagione fruttata.
Ali verso il sonno,
gira da ovest
il vento, appeso
un ricordo, rinasce
una Cicala, esuvia.”

Ma lei era incantata, guardava le foglie appena vibranti, scosse dal ponentino, quel venticello che tocca Roma e arriva su, ai suoi colli, lambisce il loro morbido scendere verso la piana della Campagna Romana, dove ancora fanno margine tra i pascoli, gli archi degli acquedotti e le torri con i merli consumati, custodi silenti del loro tempo, osservatori speciali del paesaggio che muta, tracce di un passato rurale e battagliero.
I suoi occhi azzurri persi dietro quei colori, verso quei grappoli, tutto stava virando al dorato, caldo e accogliente, osservava, “zia ma quando la raccolgono l’uva?”
Cosa dirle? Magari quel che si diceva a me, quando tra filari come questi si veniva a vendemmiare a giornata, da studenti, e la mattina era freddo, caspita se lo era, il sole sul liminare dei Monti Prenestini, ancora non faceva capolino, eri lì che quasi lo imploravi di sbrigarsi a salire, ma il sole ha il suo tempo, come il vino e allora aspettavi, con il naso ormai rigido chi doveva venirti a prendere, con un furgoncino carico di donne, ero la più giovane, e mi toccava il lato più in alto del filare a mezzacosta, me lo dissero il primo giorno “te sei giovane, non hai mal di reni”, ma si faceva volentieri, si saltava qualche lezione, ma almeno qualche sfizio ce lo si toglieva in autonomia.
“Cate’, questa è una vecchia vigna, e comincia ad essere vecchio anche il vignaiolo, e sai cosa dice sempre? Che lui la sua uva la raccoglie per ultimo, ché non ha la fretta e la smania dei giovani, perché un po’ di aria fresca fa bene ai suoi polmoni e anche ai suoi grappoli”
Ascoltava e guardava i grappoli “sai come li chiamavano questi grappoli, le signore che mi insegnavano come raccogliere l’uva? Li chiamavano “lampioni” dicevano che erano dorati come i lampioncini appesi fuori dalle fraschette su nel loro paese, quello lì vedi? Quello con la chiesa grande in alto”.

Mi distolse dal ricordo di quella gita settembrina la sua voce “ma insomma zia, perché queste piante hanno le lacrime? Sono tristi, gli fanno male i tagli?”
“No, hanno le lacrime perché si stanno per svegliare”.
“Allora piangono perché vogliono continuare a dormire un altro pochino, come me questa mattina, perché io proprio non mi volevo alzare presto per venire qui, oggi non c’è scuola io volevo dormire”.
Quasi con i sensi di colpa, per averla tirata giù dal letto tanto presto le dissi che forse le viti più giovani volevano dormire un altro pochino, ma le anziane piangevano perché erano commosse. Mi guardò meravigliata ed incredula “zia ma che dici? Perché le piante si commuovono?”
“Perché è quasi primavera, hai visto che i crochi nell’aiuola di Orsola già sono sbocciati, tra poco anche le viti anziane avranno il loro nuovo vestito di foglie verdi e fresche”.
“Bello zia, però io ora ho fame”.
“Le senti le campane della chiesa di Giano? È l’ora giusta, su corri, vediamo chi arriva prima alla rosa a capo del filare, ché ci stanno aspettando Virginio e Orsola, avranno già messo i piatti per gli gnocchi a tavola”.
“Buoni! Ma quelli che sono un po’ rossi, ma senza pomodoro?”
“Si bravissima, quello è il colore del Sagrantino di Virginio, a novembre torniamo così raccogli le sue foglie rosse, per il quaderno delle stagioni”.

“Terra di Sagrantino
E a valle il rosso
purpureo dei vigneti
scalda quasi l’aria,
accanto il campo arato
aspetta il seme,
dal freddo invernale lo proteggerà.
Attraverso i colli,
ed il grigio dell’olivo
sorprende dietro
la fila dorata dei
maestosi tigli,
E qua e là i pioppi bruni
campeggiano al margine
del lento torrente,
sul lato scorre
un verde prato”

13.07.2017, Monte Compatri

Manuela Olivieri

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