Aldo Onorati e Roma
Roma è un po’ come una meravigliosa e strana ‘stella cometa’ che appare e scompare. Benché di origine brasiliana (la nonna materna era di Säo Paulo) e tradotto ormai in sedici lingue, tra cui cinese, coreano, arabo, esperanto, romeno, russo, polacco e portoghese, Aldo Onorati è uno scrittore profondamente e intensamente laziale. Erede di una latinità vissuta come istinto rabdomantico e memoria del sangue e coscienza saporosa delle comuni radici linguistiche, prima che dato di cultura da acquisire, ha nelle fibre le ancestrali vibrazioni energetiche di due terre elettive che da sempre lo ispirano, accendendo la sua pagina-filiera di colori, di ricordi, di immagini, di evocazioni, insomma di ‘atmosfere’ ascrivibili agli ambiti geografici della Sabina (Orvinio in particolare) e, soprattutto, dei Castelli Romani (Albano in particolare).
La sua scrittura ‘grassa’, corposa, rupestre, multisensoriale, tutta scatti e guizzi, eppur dotata di sue proprie alchimie sinfoniche, in equilibrio tra i versanti della ‘natura’ e della ‘civiltà’ (grondante di ‘tempi storici’ ma immersa nel ciclo dei ‘tempi biologici’: vita e forma mescolate in un grottesco pastoso e barocco, spesso funereo, che fa le pulci all’uomo e demistifica con spietato realismo la cecità folle che domina, a guisa di demone occulto, tutta l’esistenza) pare talvolta la manifestazione di un genius loci che, quasi riemergendo dalla terra, lasci le sue tracce nei percorsi misteriosi delle parole, facendo della pagina un magnete di suggestioni, e di ‘quei’ luoghi un santuario mitico. Sono appunto Orvinio e Albano i luoghi-santuario di Onorati: si snoda intorno a questi poli, non a caso, il labirinto magico della sua infanzia. Peraltro, tutta la sua carriera di prolifico autore e di instancabile operatore culturale è stata definita un ‘atto d’amore’ nei confronti dei Castelli Romani, ed egli stesso (secondo una geniale metafora coniata da Domenico Rea) “Castello Romano ambulante”. Scrive di sé Onorati, in un lacerto degli Ominidi (il capolavoro di interpretazione antropologica della civiltà dionisiaca dei Castelli, documentata prima della sua scomparsa): «Un’adolescenza ribelle, scritta su ogni onda del lago, su ogni sentiero del bosco, su ogni foglia.» Egli ha un rapporto profondamente religioso e panico con queste terre, con cui si identifica e in cui, per entusiasmo d’amore, aspira quasi a trasfondersi. Ma che rapporto ha Onorati con Roma? Come entra e con quale ruolo, la Città Eterna, nella costellazione geografica e simbolica delle sue scritture? Se Albano e Orvinio rappresentano le ‘stelle polari’ di tale costellazione, ovvero le terre del cuore e dell’anima (in ordine a un concetto emozionale e personale – prima che fisico e scientifico – della geografia), Roma è un po’ come una meravigliosa e strana ‘stella cometa’ che appare e scompare, qua e là, senza lasciare tracce determinanti sul paesaggio. Eppure Onorati la conosce come le proprie tasche, anche per averla frequentata fin da ragazzo (vuoi per gli studi musicali – canto lirico – presso il Maestro Ranucci; vuoi per quelli universitari – alla ‘Sapienza’, Facoltà di Lettere -, che lo videro allievo, fra gli altri, di Petrocchi, e amico di Marmorale; vuoi infine per le collaborazioni giornalistiche, e le consulenze professionali presso editori storici come Armando). Niente: ancor oggi, quando il settantatreenne Onorati parte (di solito in treno) dalla sua Albano per raggiungere Roma, ne torna, invariabilmente provato, quanto prima possibile, avendone a noia il caos, il traffico, il furore, la dispersività, l’inquinamento acustico e atmosferico… Quando del resto ci si abitua all’aria senza dubbio più tersa dei Castelli (benché minacciati anch’essi, negli ultimi decenni, dalla morsa onnivora dell’inquinamento), è poi difficile respirare e sentirsi bene in una città che, allorché la si guardi dall’alto, scendendo dai suoi Colli, denuncia impietosamente una cappa bigia di smog sospeso su tutta l’estensione del suo cielo: polveri sottili che gli abitanti di Roma, inconsapevolmente, assorbono nell’aria tutti i giorni. Un rapporto complesso e controverso, dunque, quello di Onorati con la Città Eterna. Nelle pagine dei suoi libri di narrativa, Roma appare, tra luci e ombre, attraverso questo spettro di ambivalenza affettiva. È il luogo del contrappunto e dell’alterità, rispetto all’identità autoctona dei paesi, col loro ‘piccolo mondo’ rurale di storie e conoscenze condivise. Quando a Roma, nella prima metà del Novecento, c’è già da secoli (e anzi va aumentando, con la massiccia urbanizzazione della capitale) l’anonimato tipico della città, che poi addirittura ingrandisce in metropoli, ai Castelli ci si chiama e si parla ancora da un colle all’altro. Ogni paese è un microcosmo, una realtà conchiusa dove tutti sanno tutto di ciascuno, come in una specie di tribù, di famiglia allargata. Per capire la differenza, basti pensare alle generalità onomastiche del villico: a Roma egli avrà un cognome e un nome statuiti, come da documento personale; ai Castelli soltanto il soprannome con cui tutti lo chiamano e conoscono (i libri di Onorati abbondano di soprannomi curiosi e coloriti, ad esempio Lope, Gufarello, Gecche, Cacasangue, Sturapippe, Crastaporchi, Scorfana, etc.). Roma, insomma, è vista o con gli occhi (fisici e mentali) del ragazzo che deve ancora conoscerla, e che per questo la immagina col brivido del mistero e del proibito (è in città, ad esempio, che si scende per iniziarsi alle prostitute), o con quelli del burino che già la conosce ma ci va di rado, per lavoro o per svago, e che la vive con sospetto, come qualcosa di estraneo, di pericoloso, da cui guardarsi con attenzione.
Roma, in buona sostanza, è la ‘lontananza vicinissima’ che turba: città sconfinata, babelica, tentacolare, per i ‘tipi’ rustici e ingenui che popolano le pagine di Onorati: un gorgo che attrae e respinge al tempo stesso. Luogo di escursioni picaresche, di avventure rischiose, di notti brave, da cui puntualmente – toccata la sponda del pericolo – si torna al cantuccio caldo e sicuro del paese.
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