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“Affari di cuore” di Paolo Ruffilli – 1/2

Maggio 19
00:00 2012

Affari di cuore è l’impietosa indagine di un tracciato cardiaco, un “corpo a corpo” delle emozioni che passano attraverso la carne e a cui, un poeta che possa definirsi tale, non può sottrarsi. Ruffilli lo fa e nel migliore dei modi, solcando il tracciato di un’inesorabile e convincente analisi che coinvolge profondamente nel sedimento che resta. Lo spunto nasce da una puntuale ed inflessibile esplorazione della fenomenologia amorosa, ma va ben oltre ed è, a tutti gli effetti, capacità di maturazione tanto letteraria quanto sentimentale. Affari di cuore è, infatti, un punto di alta levatura poetica, coraggioso e raffinato nel suo farsi sigillo di crescita interiore attraverso l’esperienza.

Leggerlo è delizia nel supplizio, diretta percezione del giardino in versi tra spinosi rovi di rose nella rugiada ancora imbevuti. Se ne esce comunque fioriti, vividi nel cuore, nonostante tutto, perché è l’amore a uscirne risolto, compiuto, sia pure in una forma di approccio strettamente laica e poco incline ad un’interazione spirituale se non nel piano più panteistico dello stesso fenomeno anatomizzato. Se è “per amore” che stiamo parlando quel che ne emerge è un altalenate squilibrio che, fin dai primi versi, addita risvolti carnali piuttosto che un amore accertato. Quelli di un amore di fondo incompiuto e controproducente, epilogo di una vicenda già scandito a partire dall’incipit. Se sui sensi, che riportano a un “retaggio/cannibalesco,/quello di mangiarsi”, si apre la storia amorosa del Ruffilli, è per indurre a una ben più profonda osservazione su quelle che sono le stesse conseguenze dell’amore. Un “amore” che poi “impedisce/di dormire”, “toglie l’appetito”, così come scandisce la prima anamnesi riportata in versi. “Sto sulla traccia/del tuo fantasma/e, nell’assenza,/vivo amplificato” sono i primi segni di consapevolezza seminati nel dolore che, a tutti gli effetti, da qui prende coraggio ad esporsi, avviando un ineluttabile processo di metabolizzazione proprio di chi ha capacità intellettuali sulla sfera emotiva. Il qualcosa che già demarca la differenza e che va oltre una mera strumentalizzazione dell’amore finalizzata ad uso e consumo dell’altro, avvia, quindi, il suo corso. Ruffilli non indugia e si contrappone “beato” (“restando/a cuocermi nel forno”) al cinismo dissociato di chi lascia “il vuoto/senza una risposta”; poiché “è l’amore/la sola chiave/che aprendo i cuori/dilata i pori/e le fessure” interponendo, tra cotanta sensualità, quell’unicum che è anima e corpo, mentre il silenzio, lo spegnere il sentire è la condanna eterna che permane. L’autore, dunque, vive e fino in fondo il dilaniarsi di un corpo che s’identifica con l’anima: “è come se/mi avessero strappato/una parte di me/e senza più una gamba/o un occhio/o un braccio/avanzo nella nebbia”. Una nebbia da cui già s’intravede la premessa di un futuro, unica via accessibile per una resurrezione profetizzata a partire dal “dentro di te, sono già morto”. E allora ecco l’ “amerò finalmente/solo per amare”, libero del “tuo starmi sotto” e che “mi ha sedotto”, tipico delle dinamiche passive amorose, le più pericolose, quelle che inchiodano alla “sacra/sindone del letto”, ma anche quelle che, al contempo, sono le più rivelatrici. “Ho cominciato/a amarti appena/mi hai lasciato”, “del suo arreso amore/mi sono innamorato” è, in questo senso, quanto meglio si esplicita lasciando adeguato margine di contemplazione che, oltre la stessa poesia, è condizione di introiezione ed evoluzione. Un primo senso di distacco fuoriesce nel “ti guardo/che mi guardi/ridendo”, mentre la presa di distanza è proiezione della “frenesia/che avevi/tu di me/prima di saziarti”. (continua)

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