A chi piace l’iconografia del femminicidio?
Posto che ci piace pensare che siamo in una fase di cambiamento che sembra ora faccia il paio con la lunga fase di decadenza, sarà possibile auspicare che finisca al più presto questo “nominificio” inventato da un giornalismo senza tanti orizzonti, ripiegato sulla quotidianità senza rispettare, a volte, il vissuto delle persone: i cui fatti passa al setaccio largo quando serve e strettissimo quando conviene.
Ultimamente la giornalista Rai Roberta Serdoz si è preoccupata di raccontare di figli e famiglie che restano orfani di madre, con, all’improvviso, il padre-mostro se non morto, richiamando a una sensibilità diversa che travalichi l’univoca trattazione dei passaggi efferati dell’omicidio.
Su giornali, riviste e persino nelle locandine e nei manifesti di associazioni che dovrebbero avere a cuore la questione “assassini di donne”, non tutta e non solo di interesse femminile, appaiono immagini “esemplificative dell’orrore” come non vorremmo più vedere. Mentre quando si scrive di diritti umani di adulti o minori, vittime di abusi, di guerre civili, si utilizzano foto con metaforiche righe di filo spinato, mani che cercano aiuto, la tenue luce d’una candela (una vecchia immagine Amnesty), d’uso consueto anche nelle notizie di crimini spietati, su locandine, manifesti e articoli su assassini di donne e promozione di nuova cultura contro questi, si scatena il delirio visivo.
Si sono viste apparire in sequenza: donne con polsi o corpi legati, trascinate, battute, il volto blu, il sangue che scorre. Nei programmi televisivi “rotocalco” (in prima serata come a tarda notte) uomini che sembrano rifare ogni volta il verso alla scimmia di 2001 Odissea nello spazio con vittima sacrificale. L’immagine femminile, contraltare di questa, dovrebbe essere quella di ragazze e donne che appaiono in biancheria intima, elegante o ammiccante, accanto a ogni prodotto pensato dalla nostra società dei consumi. Perciò un futuro ricercatore che si trovasse a investigare sulla condizione della donna nei primi anni di questo millennio, e che si basasse su queste rappresentazioni visive al netto del web, concluderebbe che la donna o svolgeva la professione di modella o veniva pestata, con qualche “breve puntata” fra maternità o pubblicità di donne incontinenti e maleodoranti, argomento sul quale ha scherzato molto la Littizzetto per stigmatizzare una volgarità commerciale che in realtà non ha sesso.
Forse c’è bisogno di denunciare con più intelligenza, promuovendo immagini di donne reali ma non continuamente tenute in scacco e violentate: donne normali al parco con i figli; che studiano e lavorano, fanno la spesa, condividono passeggiate, letture, ballo, teatro, cinema, con amici e partner, mentre inventano la loro esistenza con impegno. Occorre fare attenzione a ogni passaggio del linguaggio affinché ogni simbolo possa contribuire a coltivare una mentalità di rispetto fra i generi. (per Quale cultura attorno al femminicidio vedi Controluce.it – download numeri novembre e dicembre 2013).
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