25 aprile, ricordo di un partigiano
Milano, 24 aprile 2010. Mio padre si chiamava Severino ed era un uomo libero. Durante la sua vita troppo breve – è morto nel 1972, per una malattia, a soli 51 anni – effettuò scelte spesso dolorose, compiendo sacrifici e rinunce, per mantenere quello che riteneva il bene supremo: la libertà. Libertà che era stata il leit motiv della sua infanzia, quando attraversava a piedi nudi, correndo veloce come il vento, le campagne di Montalto, frazioncina di Nogara (Verona) in cui era nato e che ospitava poche decine di contadini. “Andavamo a pesca, a nidi o a scoprire il mondo,” raccontava a noi figli, nati in mezzo all’asfalto di Milano, con nostalgia di quei giorni, mentre i suoi occhi brillavano ancora di quel puro e selvatico entusiasmo di bambino. Ventenne, durante l’occupazione nazifascista, fu partigiano, in una banda di giovani eroi che si battevano, correndo ben altri rischi che una sbucciatura a un ginocchio o la caduta da un ciliegio, ancora per la libertà. Verona era la base del nazifascismo in Italia e opporsi ad esso significava affrontare quotidianamente la morte. “Eravamo ragazzini sfrontati,” ricordava quando parlava con noi dei suoi anni giovanili, “ma avevamo una vera allergia per i tedeschi e i fascisti. Alcuni di noi avevano il compito di raccogliere informazioni sui loro movimenti militari, altri di attuare operazioni di sabotaggio, per rallentarli e renderli meno efficienti. Evitavamo di colpire le persone, perché per ogni tedesco o fascista che perdeva la vita durante un’azione partigiana, venivano fucilati dieci italiani sospettati di aiutare la Resistenza”. Un giorno mio padre e alcuni suoi giovani compagni vennero catturati dai fascisti. Ci raccontò l’episodio così: “I partigiani non erano sempre organizzati, sotto l’aspetto militare. Più che missioni, le nostre erano scorribande, per far sentire i fascisti e i nazisti sotto pressione. Danneggiare un ponte o sabotare un mezzo di trasporto poteva rallentarli e farli sentire meno sicuri. Un giorno io e gli altri ragazzi fummo ingenui e cademmo nelle mani dei fascisti. Ci sorpresero allo scoperto e decisero di fucilarci. Ci portarono sulla sponda di un torrente, presero la mira con i fucili… puntate… ma prima che potessero premere il grilletto, ci eravamo già tuffati in acqua e via, come nel romanzo ‘Addio alle armi’ di Hemingway! Ci salvammo nuotando con tutte le nostre forze, mentre sentivamo gli spari alle nostre spalle”.
Qui di seguito, un articolo di Giovanna Giannini sulla Resistenza nel Veronese ( http://www.cronologia.it/storia/a1943nn.htm ).
La resistenza a Verona
di Giovanna Giannini
Verona fu sicuramente la sede del nazifascismo in Italia, eppure proprio in queste zone prese piede la missione militare RYE, che aveva il compito di raccogliere informazioni sui movimenti delle forze tedesche e fasciste e di coordinare gli aiuti alle forze partigiane sulle montagne.
Immediatamente dopo il 25 luglio 1943 i carri armati tedeschi avevano cominciato la loro discesa dal Brennero e nel giro di poco entrarono a Verona. Che la città fosse ormai in mano nazista lo dimostravano i sempre più numerosi cartelli scritti non più in italiano ma in tedesco. Anche i migliori alberghi cittadini erano stati invasi dal nemico, era proprio in questi luoghi sfarzosi che spesso venivano pronunciate superficialmente sentenze di morte e si viveva senza nessun tipo di restrizione, come se la guerra non esistesse.
Ma nonostante un’apparente tranquillità, Verona era ormai una città svuotata. Chi poteva andava via perché conscio dei pericoli e delle precarie condizioni di vita che si celavano dietro quei silenzi. Non c’erano infatti più autobus per mancanza di pneumatici e lubrificanti. I tram erano guidati dalle donne e difficilmente riuscivano a compiere un intero percorso perché non c’era sufficiente energia elettrica. Il mercato di Piazza delle Erbe aveva ben poco da vendere. Le caserme erano piene di anziani richiamati incredibilmente alle armi, ma la notte si svuotavano perché si pernottava nelle proprie case. Chi poteva la sera si ritrovava ai tavolini dei caffè dov’era ormai di routine veder passare le ronde dell’esercito a cui, dopo la caduta di Mussolini, toccava il compito di mantenere l’ordine pubblico. Ma i tedeschi erano ormai padroni di tutto ed erano seriamente intenzionati a fissare qui la loro capitale.
Anche i fascisti si rifecero vivi riaprendo le loro sedi e rispolverando i ritratti di Mussolini. Molte ville e palazzi furono requisiti ed era diventato molto difficile trovare generi alimentari, perché i viveri tesserati erano distribuiti in quantità irrisoria. Le campagne invece erano ricolme di provviste che però venivano vendute a prezzi elevatissimi. Un sacco di farina bianca costava quanto due mesi di stipendio. La popolazione era insofferente, gli scioperi nelle grandi fabbriche erano il sintomo più evidente di questo malumore.
Posto di fronte al dilagare delle proteste, al rafforzamento del movimento partigiano, alle agitazioni operaie e alla lotta sotterranea della grande industria, Mussolini decise allora di puntare sulla carta della pacificazione e della concordia nazionale. Si illudeva di poter governare nuovamente l’Italia attraverso la creazione di un nuovo stato repubblicano e fascista. Fu così che il 14 novembre del 1943 si svolse a Verona il primo e unico congresso del Partito Fascista Repubblicano, che avrebbe dovuto dare una svolta operaia e socialista al paese.
Congresso di Verona
Si svolse dal 14 al 16 novembre del 1943 presso Castel Vecchio a Verona. Durante la seduta furono approvati i cosiddetti 18 punti, cioè il manifesto programmatico del nuovo Partito fascista repubblicano. La parola d’ordine dei congressisti era : odio per la monarchia e guerra totale alle plutocrazie occidentali e ai capitalisti italiani che ne erano complici. Si stabiliva inoltre la convocazione di un’assemblea costituente che avrebbe dovuto proclamare la nascita della Repubblica Sociale ed eleggerne il capo. Il nuovo Stato sarebbe stato una repubblica presidenziale elettiva ( con elezioni ogni 5 anni ) e garantista. A fondamento di esso era posto il lavoro. Era prevista infatti la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili delle aziende, e l’obbligo per tutti di iscriversi ai sindacati che dovevano confluire nella Confederazione generale del lavoro.
A Verona nel gennaio del 1944 si svolse anche il processo contro il genero del duce, Galeazzo Ciano, e i gerarchi che avevano approvato l’ordine del giorno Grandi provocando la caduta del regime. La sentenza fu di morte e coinvolse non solo Ciano ma anche Marinelli, De Bono, Gottardi, Pareschi.
Verona quindi fortemente al centro non solo però delle manifestazioni e delle vendette fasciste, ma anche della Resistenza.
Come abbiamo precedentemente detto in queste zone, nel novembre del 1943, prese corpo la missione RYE. Di questa missione facevano parte il tenente Carlo Perucci e due suoi collaboratori inviati tra le linee tedesche per raccogliere informazioni sui movimenti delle forze nemiche e su eventuali obiettivi militari da colpire. Si cercò però in ogni modo di evitare attentati alle persone, perché non avrebbero portato a nulla di nuovo sul piano militare, mentre avrebbero causato rappresaglie contro la popolazione civile.
Si scelse Verona come sede della missione perché lo stesso Perucci era nativo della zona e con molti legami e conoscenze soprattutto con l’ambiente cattolico, essendo stato prima della guerra esponente di spicco dell’Azione Cattolica. Fu quindi facile per lui e i suoi collaboratori trovare solidi appoggi in diverse canoniche, dove vennero create vere e proprie basi informative.
Fu proprio grazie ad un prete, Don Luigi Cavaliere, che la missione si svolse con successo. Era parroco di Tarmassia ed era membra attivo del Comitato di Liberazione Nazionale, alla fine del conflitto venne riconosciuto come uno dei più attivi partigiani della zona. Attraverso un cannocchiale posto sul campanile della sua chiesa, osservava i diversi campi d’aviazione della zona, la linea ferroviaria e le diverse strade interne. Con un radio trasmettitore comunicava i vari spostamenti alle forze alleate di liberazione e riceveva messaggi per missioni di sabotaggio. Nascose presso le famiglie del suo paese molti soldati inglesi, affrontò molti pericoli ma prima di accettare questi incarichi si fece dare da Perucci una rivoltella per difendersi. La canonica di Tarmassia divenne quindi la sede operativa della missione RYE.
Settimanalmente si svolgevano nella canonica dei corsi di sabotaggio. Per evitare che il suo paese fosse bruciato, don Cavaliere si fece rilasciare dai tedeschi un lasciapassare, che gli venne rilasciato prontamente anche perché egli aveva svolto opera di collaborazione nel reclutamento di civili per lo sgombero della linea Legnago- Isola bombardata. Quel lasciapassare fu utilizzato per spostarsi con maggiore libertà e trasmettere le informazioni partigiane presso le parrocchie vicine. Venne arrestato verso la fine del 1944 dai nazifascisti insieme ad altri della missione RYE, ma fu rilasciato perché non si trovò nulla a suo carico. Riuscì a disarmare e a far mettere in isolamento presso delle scuole elementari un’intera compagnia di soldati della Wehrmacht fino all’arrivo delle forze di liberazione.
Nonostante questi gesti di eroismo i pareri sulla missione RYE rimangano contrastanti. Alcuni studiosi ritengono che si agì spesso in funzione disgregante all’interno del movimento di liberazione, si trattò comunque di un valido contributo per la liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista.
Bibliografia
Storia Illustrata Il Congresso di Verona n.5, Maggio 1988
Gianfranco Venè Coprifuoco Mondadori 1991
Silvio Bertoldi Salò BUR 2000
Arrigo Petacco La nostra guerra Mondadori 1995
Ray Moseley Ciano l’ombra di Mussolini Mondadori 2000
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Severino Malini
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25 aprile, ricordo di un partigiano
di Roberto Malini
Milano, 24 aprile 2010. Mio padre si chiamava Severino ed era un uomo libero. Durante la sua vita troppo breve – è morto nel 1972, per una malattia, a soli 51 anni – effettuò scelte spesso dolorose, compiendo sacrifici e rinunce, per mantenere quello che riteneva il bene supremo: la libertà. Libertà che era stata il leit motiv della sua infanzia, quando attraversava a piedi nudi, correndo veloce come il vento, le campagne di Montalto, frazioncina di Nogara (Verona) in cui era nato e che ospitava poche decine di contadini. “Andavamo a pesca, a nidi o a scoprire il mondo,” raccontava a noi figli, nati in mezzo all’asfalto di Milano, con nostalgia di quei giorni, mentre i suoi occhi brillavano ancora di quel puro e selvatico entusiasmo di bambino. Ventenne, durante l’occupazione nazifascista, fu partigiano, in una banda di giovani eroi che si battevano, correndo ben altri rischi che una sbucciatura a un ginocchio o la caduta da un ciliegio, ancora per la libertà. Verona era la base del nazifascismo in Italia e opporsi ad esso significava affrontare quotidianamente la morte. “Eravamo ragazzini sfrontati,” ricordava quando parlava con noi dei suoi anni giovanili, “ma avevamo una vera allergia per i tedeschi e i fascisti. Alcuni di noi avevano il compito di raccogliere informazioni sui loro movimenti militari, altri di attuare operazioni di sabotaggio, per rallentarli e renderli meno efficienti. Evitavamo di colpire le persone, perché per ogni tedesco o fascista che perdeva la vita durante un’azione partigiana, venivano fucilati dieci italiani sospettati di aiutare la Resistenza”. Un giorno mio padre e alcuni suoi giovani compagni vennero catturati dai fascisti. Ci raccontò l’episodio così: “I partigiani non erano sempre organizzati, sotto l’aspetto militare. Più che missioni, le nostre erano scorribande, per far sentire i fascisti e i nazisti sotto pressione. Danneggiare un ponte o sabotare un mezzo di trasporto poteva rallentarli e farli sentire meno sicuri. Un giorno io e gli altri ragazzi fummo ingenui e cademmo nelle mani dei fascisti. Ci sorpresero allo scoperto e decisero di fucilarci. Ci portarono sulla sponda di un torrente, presero la mira con i fucili… puntate… ma prima che potessero premere il grilletto, ci eravamo già tuffati in acqua e via, come nel romanzo ‘Addio alle armi’ di Hemingway! Ci salvammo nuotando con tutte le nostre forze, mentre sentivamo gli spari alle nostre spalle”.
Qui di seguito, un articolo di Giovanna Giannini sulla Resistenza nel Veronese ( http://www.cronologia.it/storia/a1943nn.htm ).
La resistenza a Verona
di Giovanna Giannini
Verona fu sicuramente la sede del nazifascismo in Italia, eppure proprio in queste zone prese piede la missione militare RYE, che aveva il compito di raccogliere informazioni sui movimenti delle forze tedesche e fasciste e di coordinare gli aiuti alle forze partigiane sulle montagne.
Immediatamente dopo il 25 luglio 1943 i carri armati tedeschi avevano cominciato la loro discesa dal Brennero e nel giro di poco entrarono a Verona. Che la città fosse ormai in mano nazista lo dimostravano i sempre più numerosi cartelli scritti non più in italiano ma in tedesco. Anche i migliori alberghi cittadini erano stati invasi dal nemico, era proprio in questi luoghi sfarzosi che spesso venivano pronunciate superficialmente sentenze di morte e si viveva senza nessun tipo di restrizione, come se la guerra non esistesse.
Ma nonostante un’apparente tranquillità, Verona era ormai una città svuotata. Chi poteva andava via perché conscio dei pericoli e delle precarie condizioni di vita che si celavano dietro quei silenzi. Non c’erano infatti più autobus per mancanza di pneumatici e lubrificanti. I tram erano guidati dalle donne e difficilmente riuscivano a compiere un intero percorso perché non c’era sufficiente energia elettrica. Il mercato di Piazza delle Erbe aveva ben poco da vendere. Le caserme erano piene di anziani richiamati incredibilmente alle armi, ma la notte si svuotavano perché si pernottava nelle proprie case. Chi poteva la sera si ritrovava ai tavolini dei caffè dov’era ormai di routine veder passare le ronde dell’esercito a cui, dopo la caduta di Mussolini, toccava il compito di mantenere l’ordine pubblico. Ma i tedeschi erano ormai padroni di tutto ed erano seriamente intenzionati a fissare qui la loro capitale.
Anche i fascisti si rifecero vivi riaprendo le loro sedi e rispolverando i ritratti di Mussolini. Molte ville e palazzi furono requisiti ed era diventato molto difficile trovare generi alimentari, perché i viveri tesserati erano distribuiti in quantità irrisoria. Le campagne invece erano ricolme di provviste che però venivano vendute a prezzi elevatissimi. Un sacco di farina bianca costava quanto due mesi di stipendio. La popolazione era insofferente, gli scioperi nelle grandi fabbriche erano il sintomo più evidente di questo malumore.
Posto di fronte al dilagare delle proteste, al rafforzamento del movimento partigiano, alle agitazioni operaie e alla lotta sotterranea della grande industria, Mussolini decise allora di puntare sulla carta della pacificazione e della concordia nazionale. Si illudeva di poter governare nuovamente l’Italia attraverso la creazione di un nuovo stato repubblicano e fascista. Fu così che il 14 novembre del 1943 si svolse a Verona il primo e unico congresso del Partito Fascista Repubblicano, che avrebbe dovuto dare una svolta operaia e socialista al paese.
Congresso di Verona
Si svolse dal 14 al 16 novembre del 1943 presso Castel Vecchio a Verona. Durante la seduta furono approvati i cosiddetti 18 punti, cioè il manifesto programmatico del nuovo Partito fascista repubblicano. La parola d’ordine dei congressisti era : odio per la monarchia e guerra totale alle plutocrazie occidentali e ai capitalisti italiani che ne erano complici. Si stabiliva inoltre la convocazione di un’assemblea costituente che avrebbe dovuto proclamare la nascita della Repubblica Sociale ed eleggerne il capo. Il nuovo Stato sarebbe stato una repubblica presidenziale elettiva ( con elezioni ogni 5 anni ) e garantista. A fondamento di esso era posto il lavoro. Era prevista infatti la partecipazione dei lavoratori alla gestione e agli utili delle aziende, e l’obbligo per tutti di iscriversi ai sindacati che dovevano confluire nella Confederazione generale del lavoro.
A Verona nel gennaio del 1944 si svolse anche il processo contro il genero del duce, Galeazzo Ciano, e i gerarchi che avevano approvato l’ordine del giorno Grandi provocando la caduta del regime. La sentenza fu di morte e coinvolse non solo Ciano ma anche Marinelli, De Bono, Gottardi, Pareschi.
Verona quindi fortemente al centro non solo però delle manifestazioni e delle vendette fasciste, ma anche della Resistenza.
Come abbiamo precedentemente detto in queste zone, nel novembre del 1943, prese corpo la missione RYE. Di questa missione facevano parte il tenente Carlo Perucci e due suoi collaboratori inviati tra le linee tedesche per raccogliere informazioni sui movimenti delle forze nemiche e su eventuali obiettivi militari da colpire. Si cercò però in ogni modo di evitare attentati alle persone, perché non avrebbero portato a nulla di nuovo sul piano militare, mentre avrebbero causato rappresaglie contro la popolazione civile.
Si scelse Verona come sede della missione perché lo stesso Perucci era nativo della zona e con molti legami e conoscenze soprattutto con l’ambiente cattolico, essendo stato prima della guerra esponente di spicco dell’Azione Cattolica. Fu quindi facile per lui e i suoi collaboratori trovare solidi appoggi in diverse canoniche, dove vennero create vere e proprie basi informative.
Fu proprio grazie ad un prete, Don Luigi Cavaliere, che la missione si svolse con successo. Era parroco di Tarmassia ed era membra attivo del Comitato di Liberazione Nazionale, alla fine del conflitto venne riconosciuto come uno dei più attivi partigiani della zona. Attraverso un cannocchiale posto sul campanile della sua chiesa, osservava i diversi campi d’aviazione della zona, la linea ferroviaria e le diverse strade interne. Con un radio trasmettitore comunicava i vari spostamenti alle forze alleate di liberazione e riceveva messaggi per missioni di sabotaggio. Nascose presso le famiglie del suo paese molti soldati inglesi, affrontò molti pericoli ma prima di accettare questi incarichi si fece dare da Perucci una rivoltella per difendersi. La canonica di Tarmassia divenne quindi la sede operativa della missione RYE.
Settimanalmente si svolgevano nella canonica dei corsi di sabotaggio. Per evitare che il suo paese fosse bruciato, don Cavaliere si fece rilasciare dai tedeschi un lasciapassare, che gli venne rilasciato prontamente anche perché egli aveva svolto opera di collaborazione nel reclutamento di civili per lo sgombero della linea Legnago- Isola bombardata. Quel lasciapassare fu utilizzato per spostarsi con maggiore libertà e trasmettere le informazioni partigiane presso le parrocchie vicine. Venne arrestato verso la fine del 1944 dai nazifascisti insieme ad altri della missione RYE, ma fu rilasciato perché non si trovò nulla a suo carico. Riuscì a disarmare e a far mettere in isolamento presso delle scuole elementari un’intera compagnia di soldati della Wehrmacht fino all’arrivo delle forze di liberazione.
Nonostante questi gesti di eroismo i pareri sulla missione RYE rimangano contrastanti. Alcuni studiosi ritengono che si agì spesso in funzione disgregante all’interno del movimento di liberazione, si trattò comunque di un valido contributo per la liberazione dell’Italia dal giogo nazifascista.
Bibliografia
Storia Illustrata Il Congresso di Verona n.5, Maggio 1988
Gianfranco Venè Coprifuoco Mondadori 1991
Silvio Bertoldi Salò BUR 2000
Arrigo Petacco La nostra guerra Mondadori 1995
Ray Moseley Ciano l’ombra di Mussolini Mondadori 2000
…
Severino Malini
…
Contatti:
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