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16 marzo 1978: un Presidente della Democrazia Cristiana viene rapito

16 marzo 1978: un Presidente della Democrazia Cristiana viene rapito
Febbraio 28
16:54 2015

14-La-storia-del-mesePoco prima delle 9 di mattina del 16 marzo 1978 il Presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro esce di casa per recarsi alla Camera dei Deputati, dove un’ora più tardi il Presidente del consiglio incaricato presenterà il suo nuovo governo. La particolarità del fatto, in un’epoca di governi effimeri che si succedono a ritmo incalzante, è che per la prima volta nella storia dell’Italia repubblicana, a seguito di una mediazione voluta e attuata proprio da Moro, un esecutivo riceverà la fiducia anche dal Partito Comunista, fino a quel momento sempre all’opposizione.

Moro sale nel sedile posteriore sinistro di una Fiat 130, dietro l’appuntato dei carabinieri Domenico Ricci e il caposcorta maresciallo Oreste Leonardi. Un’altra auto di scorta, un’Alfetta, ha a bordo tre poliziotti. Dopo pochi minuti, percorso il primo tratto di via Fani, quasi all’incrocio con via Stresa, l’autista di Moro deve rallentare e arrestarsi perché davanti a loro una Fiat 128 con targa diplomatica si ferma al segnale di stop. In quel momento dal marciapiede di destra un uomo in divisa da aviere spara contro Leonardi e l’istante successivo da sinistra altri quattro uomini, sbucando dalle siepi di un bar all’angolo, aprono il fuoco contro l’autista di Moro e i tre occupanti dell’auto di scorta. Morto sul colpo l’autista dell’Alfetta, il freno della macchina non è più governato e l’auto, con un sobbalzo, va a tamponare la Fiat 130 con Moro mentre, ucciso Ricci, anche il tiratore di sinistra in posizione più avanzata balza indietro e spara contro l’auto della scorta. Dalla parte opposta, e forse non ancora ferito a morte, l’agente di scorta Raffaele Iozzino esce dall’auto ed esplode un paio di colpi verso gli assalitori, venendo subito raggiunto sia da una raffica da sinistra sia da una da destra, sparata da altri due ‘avieri’ sbucati all’improvviso, e si accascia esanime sulla strada.
Cessata la sparatoria, dalla Fiat 128 con targa diplomatica scende l’uomo alla guida che, assieme a due complici, corre a prelevare Moro (rimasto illeso, ma stordito e immobile per lo shock) e lo carica su una Fiat 132 blu appena giunta a retromarcia da via Stresa. Afferrate due (delle 5) borse di Moro dalla 130 e un mitra dei poliziotti dall’Alfetta, il commando fugge con l’ostaggio a bordo di tre autovetture e di una moto Honda, facendo subito perdere le sue tracce.

Nell’immediato
14-Immagine-n-2Una ventina di minuti dopo il sequestro, una serie di ordini impartiti dalla sala comando della polizia tenta invano di coordinare l’inseguimento dei sequestratori. Si riesce soltanto a ritrovare una delle auto usate dai rapitori, abbandonata poco distante; le altre verranno rinvenute dopo qualche giorno. Per ore una folla di curiosi e di inquirenti si addensa in via Fani, attorno alle vetture crivellate dai colpi e ai cadaveri della scorta di Moro, mettendo confusione tra i reperti e le testimonianze dei presenti.
Risulterà in seguito che più della metà dei 93 proiettili sparati durante l’operazione provenivano da un’unica arma, usata da un tiratore molto esperto; che a partecipare al sequestro dell’uomo politico era stato un commando di almeno 14 persone, alcune delle quali parlavano una lingua straniera e quasi tutte molto ben addestrate (non i 10 ragazzotti impreparati dichiarati dai responsabili del rapimento); che l’operazione era stata accuratamente preparata in anticipo, malgrado il tragitto seguito dalle auto di Moro venisse scelto ogni mattina proprio dagli agenti della scorta; e che sul luogo del rapimento si trovavano in quel momento anche personaggi ‘enigmatici’, come ad esempio un appartenente ai servizi segreti.

In prospettiva
Al sequestro di Moro seguiranno 55 giorni di attività frenetiche, che non esiteranno in una conclusione favorevole per nessuno dei protagonisti di quella vicenda. Lo stesso 16 marzo, poche ore dopo essere stato ferito in via Fani, l’agente Iozzino morirà al Policlinico Gemelli senza aver ripreso conoscenza. Il Ministro degli interni Francesco Cossiga metterà in piedi una ‘struttura’ per coordinare e affiancare le indagini, che si caratterizzerà per incompetenza, improvvisazione e insipienza. Verranno diffusi identikit sbagliati sui rapitori e si compiranno vari tentativi, falliti, di ‘liberare’ Moro. L’identità dei criminali, sospettata già il giorno del sequestro, diverrà nota il 18 marzo, quando una telefonata al Messaggero farà ritrovare il ‘Comunicato n. 1 delle Brigate Rosse’, con la rivendicazione dell’attentato e una foto del prigioniero collocato davanti a una stella a cinque punte.
Nelle settimane successive le Brigate Rosse sottoporranno Moro a interrogatorio per carpirne segreti politici e forse militari, ma non sveleranno mai che cosa il ‘prigioniero’ abbia detto. Né mai utilizzeranno il ‘successo’ di quella loro operazione. Faranno pervenire altri ‘Comunicati’ farneticando di una lotta di classe e di una guerra allo Stato repressivo, ma consegneranno a vari destinatari alcune lettere scritte da Moro (altre non recapitate verranno trovate molti anni dopo). Per due mesi tenteranno una trattativa con lo Stato, sull’opportunità della quale il mondo politico si dividerà senza assumere una posizione definita.
Quando la liberazione dell’ostaggio sembrerà cosa fatta, annunciata da Moro stesso, improvvisa e inspiegabile giungerà la sua uccisione. Il suo cadavere, crivellato di colpi, verrà ritrovato nel bagagliaio di un’auto parcheggiata in pieno centro a Roma, a metà strada tra le sedi del Partito Comunista e della Democrazia Cristiana.

Troppi ‘cold cases’
La notizia. Agenti della polizia scientifica, il 22 febbraio scorso, sono andati a via Fani per effettuare «nuovi rilievi» su luogo del rapimento di Aldo Moro.
Il commento. Nessuno può ragionevolmente pensare che in una strada di pubblico passaggio si possano ritrovare tracce di alcun genere di un evento accaduto 37 anni prima. Viene il sospetto che, in vista della ricomparsa di nuove informazioni sulla vicenda, il sopralluogo possa rappresentare il pretesto necessario a giustificare le nuove ‘scoperte’: forse elementi già noti da tempo ma trascurati o accantonati intenzionalmente.

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